Il libro della vita – Giornata della memoria, giornata delle memorie

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Tra i tanti oggetti mistici che accomunano l’ebraismo al cristianesimo ce n’è uno che, più di tutti, mi scalda il cuore ogni volta che lo sento nominare: è il Sefer HaChaim, il libro della vita. Secondo la tradizione talmudica, questo grosso volume è un incrocio tra un’enciclopedia e un registro scolastico, perché al suo interno sono annotati il nome e la data di nascita di tutti i figli di Dio. Politici, scienziati, sportivi e cittadini comuni: il libro contiene la biografia di ciascuno di noi, tradotta in tutte le lingue del mondo e trascritta in meravigliosi caratteri dorati, incomprensibili all’occhio umano perché cifrati. E se Dio avvolge le nostre vite in un codice segreto, non lo fa per paura che impazziremmo qualora scoprissimo fin dall’inizio dove andranno a parare, ma perché ciascuno di noi, compiendo una piccola azione buona o cattiva, potrà, come il più grande mago della saga potteriana, modificare il corso di innumerevoli destini, riscrivendo le biografie divine in un effetto domino dalle dimensioni planetarie. E chissà quali sono le parole che il Sefer HaChaim riserva ai Giusti tra le nazioni, i 26.120 non ebrei, tra cui 671 italiani, che durante l’Olocausto soccorsero, nascosero e salvarono gli ebrei anche a rischio di essere perseguiti loro stessi. Tra loro anche quattro vicentini: il partigiano Rinaldo Arnaldi di Dueville, caduto in combattimento sull’Altipiano Asiago nel 1944, che aiutava ebrei e perseguitati a fuggire in Svizzera. Un giorno salvò una famiglia di quattro persone, in cui la moglie era incinta: senza il suo supporto lo Sefer HaChaim avrebbe sicuramente avuto un nome in meno inciso sulle sue pagine.

Don Michele Carlotto, originario di Castelgomberto e parrocco di Valli del Pasubio, riuscì invece con la complicità dei carabinieri, che aspettarono 48 ore a denunciarne la scomparsa, a far scappare in Svizzera 40 ebrei slavi destinati ai lager tedeschi, in domicilio coatto da parte delle autorità nazi-fasciste.

Ricordiamo infine don Beniamino Schivo di Gallio, che a Città di Castello in Umbria nascose in casa propria la famiglia ebrea tedesca dei Korn durante il passaggio del fronte bellico dall’Alta Valle del Tevere ed Elia Dalla Costa di Villaverla, arcivescovo di Firenze, che assieme all’amico ciclista Gino Bartali e al rabbino di Firenze Nathan Cassuto avviò la produzione in serie di passaporti falsi, salvando la vita di 800 ebrei.

Ecco, credo che la giornata della Memoria, fissata dalle Nazioni Unite nel 27 gennaio dalla data in cui l’Armata rossa liberò il campo di Auschwitz, serva proprio a questo: a ricordarci che tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo scegliere se vivere passivamente la storia o scriverla. E ora che il tempo si sta portando via i testimoni diretti della grande tragedia che è stata il secolo scorso, tocca a noi impegnarci attivamente nella trasmissione della memoria. Lo dobbiamo al ricordo di chi è morto a causa della follia nazista e lo dobbiamo al futuro. Lo dobbiamo ai bambini albini che in Africa vengono bruciati vivi perché ritenuti stregoni in una sorta di folle progetto eugenetico che tanto ricorda quello hitleriano. Lo dobbiamo ai cristiani e agli yazidi rapidi dall’ISIS, ai prigionieri di Guantanamo, alle vittime della mafia e degli attentati. Lo dobbiamo alle madri adolescenti latinoamericane, separate dai figli nati sul suolo a stelle e strisce e deportate al di là del muro.

Lo dobbiamo alle vittime dei 30 conflitti che ancora insanguinano il mondo all’alba del 2017, a coloro che sono rimasti sepolti sotto la neve e l’incuria, alle vittime dell’indigenza. Lo dobbiamo a noi stessi, perché fare memoria vuol dire comprendere che nessun pennino è mai troppo piccolo, nessun cuore troppo arido, nessun popolo troppo stanco e nessuna mano troppo vecchia, tremolante o inesperta per ridisegnare i caratteri dorati del libro della vita.