CineMachine | La storia del cinema. I film muti – Parte 2

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«Avete iniziato a manifestare un’interesse per il cinema, ma non sapete da dove iniziare?», iniziava così la prima parte dell’articolo dedicato a voi, esordienti cinefili, che avete voluto iniziare questo viaggio nel mondo della cinematografia. Ripartiamo dunque da dove ci eravamo lasciati, ovvero dal cinema muto.

Il cinema sta crescendo, sia in Europa che negli Stati Uniti, dal primo cortometraggio francese al primo grande kolossal statunitense. Anche il cinema tedesco, che fino al 1910 si era limitato a copiare platealmente quello francese, comincia la sua scalata, arrivando a dare alla luce, proprio all’inizio del nuovo decennio, un’opera emblematica, il più grande evento culturale dell’epoca in Germania, ovvero Il gabinetto del Dr. Caligari (1920) diretto da Robert Wiene. Questo film non mostra soltanto un’opera di altissimo livello e non è solamente un’esperienza di visione a dir poco stupefacente, ma è il caposaldo, per eccellenza, di quel movimento artistico, e non solo, che ridesterà la Germania dai torpori successivi alla conclusiva sconfitta della Prima guerra mondiale. Stiamo, ovviamente, parlando dell’espressionismo tedesco.

Per spiegare che cos’è l’espressionismo ci vorrebbe più di un semplice articolo. Mi limiterò a dire che fu un movimento sviluppato da giovani pittori, scultori e scrittori che tentarono in ogni modo di sfiorare la follia e la morte, contrari all’autorità, all’ipocrisia e alle gerarchizzazioni sociali. Erano persone che respingevano la vita in un mondo oramai totalmente industrializzato che non lascia libero spazio all’autenticità di se stessi, ma pretendeva che le persone si standardizzassero secondo dei canoni ben precisi. Proprio quando tale movimento sta subendo una crisi e sembra destinato a scomparire, il capolavoro di Wiene ricolma gli animi di speranza per un nuovo cambiamento. Però l’idea preliminare degli autori viene cancellata a causa di un’ambiguità ideologica. La denuncia contro l’autoritarismo in ascesa in Germania, viene meno. I fatti narrati verranno capovolti a sfavore del nostro protagonista, anche se le ambientazioni angosciose e claustrofobiche da incubo e delirio ci fanno ben capire quale fosse il clima del paese all’epoca.

Passiamo oltre ed andiamo negli Stati Uniti con il primo lungometraggio del regista e attore-comico Charlie Chaplin dal titolo Il monello (1921). Questa è forse una delle storie più commoventi di Chaplin. Il personaggio del vagabondo, interpretato dallo stesso Chaplin, trova un bambino abbandonato ad un angolo della strada. La tenerezza del suo volto e l’animo gentile del nostro protagonista lo convincono a prendere il bimbo con sé. È incredibile vedere come nella miseria più nera in cui vive il personaggio di Charlot, interpretato dallo stesso Chaplin, questo sia capace di dare gioia ad un bambino che più di nulla non ha, se non dei vecchi vestiti sgualciti, una sola stanza di pochi metri che fa da salotto, da cucina, da bagno e da camera da letto ed i sassi che lancia per rompere le finestre delle abitazioni altrui, procurando così il lavoro al suo “papà” che di professione fa il vetraio. Chaplin, in questa pellicola, non risparmia le sue critiche nei confronti dell’alta società, quella puritana e materialista, che snobba la povertà ed il povero. Alla fine è Chaplin stesso attraverso i caratteri ed i comportamenti del suo personaggio che ci trasmette quel senso di semplicità e di determinazione che lo fanno, in qualche modo, evadere dalla sua posizione terrena, elevandolo su un livello superiore, quello della bontà d’animo che va otre ai dettami sociali e va oltre al propri tornaconto personale.

Ritornando in Germania e proseguendo sulla scia dell’espressionismo tedesco, un’altra opera va assolutamente vista se volete iniziare a parlare di cinema: Nosferatu, il vampiro (1922) di F. W. Murnau. Il caposaldo del cinema horror, soprattutto quello legato al genere vampiresco. Di questo film se ne sono dette e sentite tante, come per esempio che l’attore fosse, in realtà, un vero e proprio vampiro o che fosse stato il regista stesso ad interpretare il ruolo del terribile Nosferatu, ma ciò che noi possiamo dare per scontato, oramai, è che questo film è un vero e proprio capolavoro. Ci sono delle divergenze critiche sull’appartenenza o meno di questo titolo al filone espressionista, ma d’altronde, come ogni capolavoro, il film sfugge ad ogni tipo di etichetta, rivelando tutta la sua potenza e tutto il suo fascino in un’immagine cupa, grigia e graffiante, dove il vampiro trova piena espressione, diventando pungente e terrorizzante.

Come dicevamo nel paragrafo precedente, Chaplin è sicuramente una figura da menzionarsi in una rubrichetta come questa, ma non è sicuramente il solo. Difatti, negli stessi anni, se non prima dell’evento di “Charlot”, c’era un altro comico di talento, ritenuto, ad oggi, forse il migliore clown della storia del cinema, come dice Orson Welles. Stiamo parlando di Buster Keaton e, tra le sue innumerevoli e bellissime pellicole, vi consiglierei di iniziare con La palla n° 13 (1924). La traduzione del titolo è alquanto dissonante, in quanto il titolo originale è Sherlock Jr. Difatti la storia narra di questo giovane, interpretato da Buster Keaton, che si sta impegnando a studiare le tecniche investigative. Il povero ragazzo lavora in un cinema teatro dove vivrà un’intensa esperienza onirica dove le gang si susseguiranno senza tregua. L’aspetto irrequieto, quasi spento del volto di Keaton, viene totalmente travestito da un’azione frenetica che investe completante il suo personaggio, rendendolo vivo e divertente. La storia è coinvolgente e ci regala una delle migliori sequenza della storia del cinema, ovvero Keaton che entra ed esce dallo scherma di un cinematografo. Forse la prima esperienza di meta-cinema con cui Keaton approda trionfante tra i capolavori della storia del cinema.

L’ultima pellicola di questo viaggio attraverso il cinema muto si trova, di nuovo, in Germania. Mi dispiace, ma non potevo concludere questa rubrica senza una degna citazione al capolavoro del registra austriaco ed infinito maestro Fritz Lang, ovvero Metropolis (1926). Un film che ancora oggi stupisce per la sua storia, per i suoi effetti speciali e per i suoi temi che sono ancora molto attuali. In un mondo distopico, c’è una separazione netta tra il posto dei potenti, sopra la terra, e il posto dei lavoratori, sotto la terra. Gli orari di lavoro bloccano l’uomo in un meccanismo frenetico che lo renderà pari ad un’automa. Ed è proprio questa l’immagine che più ricordiamo di questo film. L’androide che istigherà gli operai, oramai da ritenersi dei veri e propri schiavi, alla ribellione verso il loro padrone. La salita verso la superficie porterà, invece che allo scontro, ad una riconciliazione tra le due diverse forze, tra lavoro e capitale. Un messaggio di collaborazione che possiamo tutt’oggi seguire pensando all’industria ed ai sistemi di lavorazione attuali. Una vera opera d’arte, con un montaggio ed una fotografia sensazionale, che merita assolutamente di essere vista, osservata ed apprezzata nei minimi dettagli.

Per questa piccola rubrica è tutto e vi auguro con tutto il cuore di poter vivere ed apprezzare il cinema non solo come quella sala buia colma di conosciuti, ma come un’esperienza unica di pura e semplice magia. Buon cinema a tutti!