I racconti della domenica: Chiuppano, educazione sessuale anni ’60

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(foto da paroleaconfine.it)

La signorina Angelina, mia vicina di casa, figlia unica, ormai avviata alla trentina e a restare “na zitelona”, diceva mio padre, spesso si sistemava sotto “el figàro” tra i “fasolari e i pumidoro”, a leggere “Famiglia Cristiana” e a ripassare il catechismo, perché di domenica faceva la maestra di dottrina in parrocchia. Viveva con la madre, la Maria” lavandara,” che tribolava dalla mattina alla sera, “poracagna”, a far la “lissia” nelle famiglie che le chiedevano questo servizio, che di solito coincideva con la fine dell’inverno e l’avviarsi della buona stagione.

Le sue mani  erano sempre rosse; mi ricordo poco il suo viso, ma le mani, quelle sì, consumate a lavare e a strizzare panni tutto l’anno. Tony, il padre, aveva una bicicletta nera, con i freni a bacchetta, il fanale davanti a carburo e una gemma che di notte sembrava “na bronsa.” Andava in opera in certi campi a Giavenale. Portava con sé una zappa legata alla canna e un piccolo fagotto, con qualche vivanda per la giornata. Vivevano in una casa che faceva “canton” tra via Costo e via Bessè a Chiuppano, una pergola davanti di uva bianca dava ombra, un piccolo orto aiutava l’economia della famiglia e appunto “el figàro”.

La cucina era uno stanzone con i “quarej” per terra, una stufa magagnata di smalto verde, con la cassa dell’acqua e i “canuni de porpora” in una parete “color smario”, un mobile tipo vetrina con certi vetri a ghirigori, che sembravano disegni di fiabe, una tavola scura, quattro sedie impagliate e appesa al muro una Sacra Famiglia, che io pensavo fossero loro qualche anno prima. Quello che più mi stupiva erano le camere: un “armaron” scuro, “el cadìn sul trepìe” e il letto, un” pajaro” col materasso “pien de scartossi”, che quando uno vi dormiva e si “ramenava” faceva un rumore della madonna.

Io abitavo accanto a questa famiglia, in una casa che mio padre aveva tirato su a spintoni e braccia, in una sequenza  confusa di una stanza sopra l’altra. L’aspetto esterno era abbastanza gradevole; lo sbruffo giallo sui muri, la ringhiera e persiane verdi completavano il quadretto di una costruzione degli anni ‘60. Cucina, tinello, camere e stalla erano  i vani abitati, il gabinetto, guai a dire cesso, era una baracchetta di lamiere e “tole” messe su alla meno peggio nell’orto, anzi forse alla peggio, ma era proprio così. Mia madre, che s’era sposata tardi, oltre la trentina, era una specie di monaca rigida e severa. Non usciva da casa se non per andare a messa prima, qualche volta al cimitero o a trovare mia nonna al Costo. Usava un linguaggio tutto suo per non lasciar trasparire niente di delicato o che fossero “affari de femene” a noi bambini. Una donna incinta, allora diventava una donna che aveva un gran raffreddore.

Quell’anno ne sentii diverse con quella “malattia”, ed io, in mezzo a quella epidemia, avevo paura “de ciaparme su calcossa anca mi”. Ai miei occhi di bambino di sei, sette anni era una specie di maestra di dottrina: mai un bacio, poche carezze, sempre pronta a bacchettare i comportamenti che non fossero secondo lei più che corretti, guai a dire una parola storta, mai una domanda impertinente, erano “papìne” e rimbrotti. Ma ciò che non mi tornava e mi tormentava era il fatto che era piatta come “na tola”, cioè a dire ora, non aveva seno. Come fare a chiedere come mai tutte le donne avevano davanti due “gnochi” così, invece lei “gnente, un figo seco”. Sapevo solo che a lei non potevo chiedere niente, guai, guai.

Mio padre lavorava alla Lanerossi, poi tra i campi, “punaro” e bestie non ne aveva un minuto “poro omo”, poco sapeva dei miei turbamenti,  delle mie domande. Capii che dovevo arrangiarmi. Un giorno la signorina Angelina se ne stava proprio sotto “el figàro” ed io con una scusa mi avvicinai a lei. Qualche volta mi interrogava, chi è Dio?, chi ci ha creato? ed io rispondevo sicuro, impettito nei miei pantaloncini corti e nei miei sandali poco conformi.

Quel giorno, chissà che cosa mi era passato per la testa, una domanda gliela feci io, forse vedendo quei fichi maturi che mi sembravano dei seni appesi, d’un fiato sbottai: “Angelina, cosa sono quei due gnochi che ha sulo stomego (non conoscevo la parola seni)? “Gala par caso meso dele bale de carta soto”? “Parché me mama no la ga gnente, la ze come pialà”? La signorina Angelina mi guardò come avesse visto “el demonio”, poco mancò non cadesse per terra dallo sdraio. Divenne “color dela fine del mondo”, io mi accesi come la gemma della bicicletta “de Tony, de un rosso bronsa invampà”.

Si alzò di scatto, alzò le braccia al cielo e mi graffiò con gli occhi. Santa Maria Addolorata, sbottò, “cossa me toca sentire, varda Gesù  che el pianse, domandeghe scusa sennò te vè all’inferno” e “desso ghe lo digo a to mama che la te sistema ela.” Mia madre attratta dallo strepito accorse subito e  subito informata della mia bravata. “Vilan d’un vilanasso, domandeghe  scusa all’Angelina e disi subito l’Atto di dolore. Stasera  in letto sensa magnare”. Poi tentò di prendermi per le “recie”, ma con uno scatto mi liberai da quegli sguardi e da quella morsa; mi dileguai tra le piante e le “vanese” del mio orto e mi rifugiai  “drio al cesso”.

Rimasi lì fino a sera tardi quando mio padre mi trovò e mi accompagnò dritto a letto. Dormii male, mi “ramenai” tanto, forse ebbi la febbre e sognai che mia madre aveva due “gnochi” così e la signorina Angelina, “invese gnente , na tola”. Il giorno dopo ricordo bene, mi guardai dal chiedere spiegazioni. Che tempi, altri tempi, colorati di lontananza e di poesia.

Rimpianto per quel mondo semplice e timorato, come in un quadro di Millet!