Un vicentino sulle orme di Marco Polo – #3 Dove riposavano le carovane

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Il gruppo di WF con la guida fuori da Tash Rabat

Il mio viaggio sulla orme di Marco Polo prosegue spedito. Ora siamo nel sud del Kirghizistan e oggi voglio parlarvi dei “rabat”.

Per secoli, le grandi civiltà dell’Oriente e dell’Occidente furono connesse da quella che viene chiamata “la Via della Seta”, una serie di percorsi che attraversavano le montagne ed i deserti asiatici, mutevoli come il vento a causa di guerre, dispute territoriali, condizioni climatiche e chi più ne ha più ne metta. Ma, con tutte le loro difficoltà, queste “autostrade” non ben definite erano utilizzate da pellegrini, rifugiati, diplomatici e, soprattutto, mercanti, che con le loro caravane ne percorrevano tratti più o meno vasti portando, in una direzione e nell’altra, beni di ogni tipo: cavalli, oro, argento, lapislazzuli, avorio, giada, corallo, lana, cetrioli, vetri colorati di Murano, melograni, aglio, uva e vino viaggiavano verso la Cina, mentre ad occidente arrivavano seta, carta (uno dei segreti più gelosamente custoditi dai cinesi), porcellana, zenzero, rabarbaro, spezie, incenso, gemme e profumi.

Le carovane, composte da cavalli e soprattutto cammelli, da Aleppo e Baghdad viaggiavano verso Samarcanda e Bukhara, dove incontravano altre caravane partite da Kashgar e Yarkanda. Lungo il percorso si appoggiavano ad una fitta rete di caravanserragli, detti “rabat”, ovvero dei luoghi che offrivano alloggio, stalle e magazzini, e che alla bisogna potevano facilmente trasformarsi in mercati.

Uno dei più famosi, perché ancora in buone condizioni, è quello di Tash Rabat, nel sud del Kirghizistan. Ci arriviamo, lasciato il lago Song-Kol, dopo un viaggio di svariate ore, la maggior parte delle quali trascorse su una strada sterrata che sale e scende lungo le bellissime montagne (particolarmente bello il tratto pieno di tornanti dei “33 pappagalli”, così chiamato perché una famosa storia kirghiza racconta di un serpente la cui lunghezza equivaleva, appunto, a quella di 33 pappagalli), e percorrendo poi la strada principale che collega Bishkek con la Cina, rimessa a nuovo qualche anno fa dai cinesi che hanno prima offerto un prestito al governo locale e poi si sono aggiudicati l’appalto con la clausola che imprese ed operai dovevano appunto provenire dal “Grande Vicino”.

La valle di Tash Rabat è stretta tra due catene montuose, alcune delle quali vengono soprannominate “denti del drago” perché una leggenda locale dice che gli acuti picchi sono in realtà l’apparato dentario di un enorme drago caduto dal cielo e rimasto sepolto con la bocca aperta che affiora. In alto volano aquile e gipeti, mentre nella valle pascolano cavalli e mucche e yak, osservati attentamente da decine di marmotte che sbucano dalle loro tane pronte a rituffarcisi al minimo segnale di pericolo. Quasi alla fine della strada, si trovano un paio di accamapamenti di yurt e, appunto, il caravanserraglio che da il nome all’intera valle.

Ci appare maestoso, con i suoi grossi muri di pietra, in parte restaurati non nel migliore dei modi durante l’epoca sovietica; un solo ingresso, chiuso ora da un cancello che impedisce ai turisti di entrare senza aver prima pagato il biglietto, solertemente venduto da una piccola e giovane donna che sembra materializzarsi dal nulla, lo rende ancora più simile ad una fortezza. In realtà, una volta entrati nel semibuio corridoio centrale, ne cominciamo ad intuire la funzione principale, ovvero quella di offrire spazio a chi passava di qua e aveva bisogno di sostare per uno o più giorni: lungo i lati si apre tutta una serie di stanze di varia grandezza, probabilmente usate per contenere le merci, mentre in fondo si trova una grande sala, sormontata da un soffitto a cupola e circondata da quelli che paiono alloggi e, forse, cucine. Al centro della sala si trova uno spazio per un grande focolare, e alla base delle pareti circostanti le pietre sono disposte a mo’ di panche, dove gli ospiti potevano sedere, conversare, ascoltare musica, mangiare e, ovviamente, mercanteggiare. Opposta all’ingresso, una nicchia più profonda serviva ad ospitare la più importante personalità del luogo, il signore del caravanserraglio, a cui sicuramente tutti rendevano omaggio.

La luce filtrava da dei buchi posti nel tetto e lungo le pareti della cupola, probabilmente chiuse da tessuti chiari che servivano al contempo a tener fuori il vento freddo che sovente spira nella valle. Buchi che, alla bisogna, sarebbero stati ben utili a degli invasori per penetrare all’interno della costruzione, anche in considerazione del fatto che è facile (e noi lo facciamo) salire sul piatto tetto, essendo la parte posteriore della costruzione come incastonata nella collina. Risulta quindi ovvio che non si trattava di una fortezza, perché probabilmente non ve n’era bisogno, ma solo di un rifugio, forse aperto liberamente ai viaggiatori, come alcuni studiosi propongono; o, molto più probabilmente, l’equivalente di un odierno motel, lungo una delle strade più trafficate di quel tempo.

Per noi, che lo visitiamo oggi, Tash Rabat rimane, nella sua solidità e nel suo perfetto isolamento tra le montagne, la testimonianza di un passato che permise ad Oriente ed Occidente di crescere e svilupparsi assieme, seppure ognuno nelle sue specificità.

 

Daniele Binaghi (pecorelettriche.it)

 

Le altre puntate:

#1 Da Venezia al Kirghizistan

#02 Lo yurt, questo sconosciuto