#Vicenzaore16 – Cronache di normalità familiare in tempi non normali: fare la spesa

Torna su L’Eco con il suo blog Erika Bacchiega. Classe 1975, grafica freelance, mamma di due bimbi, ha un amore viscerale per le cose belle, semplici, vere: che siano luoghi, cibi o persone, ricerca sempre la genuinità. #vicenzaore16 sono foto/pensieri/avvenimenti che cattura in questi giorni di quarantena.

Si entra uno alla volta, solo dopo che un’altra persona esce. Quindi c’è una fila ordinata, fuori, regolata da un uomo alto in completo scuro e mascherina bianca. Uno per carrello. Un metro, almeno un metro, uno dall’altro. E’ il supermercato oggi 30 marzo 2020. Davanti a me ho un uomo sulla cinquantina e a due metri ho due donne, madre e figlia adulte, unico doppio in questa fila al singolare, perché la figlia non è autosufficiente e non potrebbe rimanere sola.

Non ho una mascherina, ma sono l’unica, mi sento a metà in pericolo e a metà in colpa e alzo la sciarpa fucsia con fantasia di tanti “bugs” colorati (“il foulard con i bacherozzi” come lo chiamavo quando lo usavo per schermare un Lorenzo di tre-quattro mesi dal sole diretto, nel passeggino), la alzo a coprirmi naso e bocca. Non mi sento più al sicuro ma meno diversa sì.

Escono due carrelli, posso entrare io con il mio. Scaffali di frutta, praticamente vuoti. Verdura, poca e malmessa. Mi viene in mente un supermercato di un paesino croato un’estate di – quanti? – vent’anni fa almeno. Niente a che vedere con l’opulenza e l’abbondanza a cui siamo abituati, cascate di pere, arance, fragole, kiwi: oggi ci sono mele (poche) e banane (tante). Qualche limone. Niente insalata. Prendo mele e banane per i bambini, niente verdura, per fortuna ne ho ancora a casa.

L’altoparlante esorta i gentili clienti a fare la spesa in tempi contenuti per non creare troppa fila fuori. Fantascienza, fino a un mese fa. Un mese fa era tutto normale. Era vita normale, andare a fare la spesa con i bambini, Eva nel seggiolino del carrello che vuole il guanto per prendere la verdura e ne fa cadere metà per terra, Lorenzo che appena mi distraggo mi prende il carrello e ne fa una macchina di formula uno in giro per le corsie. Mi sorprendo a comprare più del necessario, ho per la prima volta da quando è iniziato tutto una sensazione di minaccia, il pensiero è: meglio due confezioni che una. Come sempre mentalmente mi faccio una mappa della settimana e di cosa potremmo aver bisogno a pranzo e a cena, ma l’altoparlante ripete che dobbiamo fare in fretta. Se capita di incrociare un altra persona, quasi senza accorgersene si gira leggermente la testa dalla parte opposta e si passa in fretta oltre.

Emergenza. Anche la fila alla cassa è a distanza di un metro uno dall’altro, segnati per terra con nastro adesivo. Cassiere con le mascherine. Nessuna battuta, solo il necessario. Pago ed esco. Appena fuori mi tiro giù il foulard, respiro aria. Che aria respiro? C’è da fidarsi? Metto la spesa in macchina e parto, naturalmente verso casa. Si può andare solo a casa ora. Viale san Lazzaro è deserto: ci sono io, incrocio altre due macchine in tutto il tragitto. Ho 44 anni e non ho mai visto una cosa simile, mai provato uno stato d’animo paragonabile.

Che cosa succederà? Che cosa sta succedendo davvero? Ci dicono tutto? Per un lampo mi passa per la testa quel film in cui costruivano la notizia falsa di una guerra attraverso i media, tutto il mondo ci credeva ma era tutto inventato: sorrido al pensiero e contemporaneamente mi vergogno, e se fosse tutto un test sociale? Forse comincio a perdere i colpi. Chiudo il cancello di casa in modo diverso, chiudo fuori il mondo, torno al sicuro. Il cane che abbaia, i bambini che parlano sempre e solo contemporaneamente offendendosi se non riesco a fare altrettanto e rispondere a entrambi nello stesso momento, le loro domande banali e benedette, “che cosa c’è per pranzo?”, “quando Eva dorme posso guardare i cartoni?”, capisco e percepisco nel profondo la loro innocenza e la loro fiducia.

Fiducia in me, certo, ma anche nelle maestre, nel mondo in generale: il loro vivere giorno per giorno adattandosi e plasmandosi velocemente attorno agli eventi, quasi lasciandosi attraversare, quasi fossero acqua che prende la forma del contenitore. Le nostre giornate, dopo le prime, hanno preso un ritmo regolare e rassicurante: al mattino dopo la colazione, si lavano, si vestono. Se Giacomo deve fare le lezioni ai suoi studenti si collega dalla scrivania giù e io sto con i bambini in camera loro, Lorenzo a fare i compiti, Eva a giocare lì accanto, qualche scaramuccia, qualche risata. Normalità, non fosse che a quell’ora entrambi sarebbero a scuola e io lavorerei. Ho praticamente smesso di lavorare nell’orario normale, lavoro di sera, qualche pomeriggio, faccio i salti mortali perché bisogna.

Ma loro, Eva e Lorenzo, stanno bene. A metà mattina la merenda, ancora compiti o video di scuola e poi li lascio andare fuori in giardino. Quando ho comprato questa casa l’ho fatto principalmente per lo spazio fuori, così insolito in una casa vicina al centro. Ma non avrei mai pensato sarebbe stato così importante come in questi giorni: i miei figli sono bambini privilegiati perché nonostante tutto stanno al sole e all’aria per ore ogni giorno, rimanendo in uno spazio sicuro. Qualche giorno fa ho deciso di sfruttare questa opportunità e rimettere a posto il giardino: non “farlo rimettere a posto”, ma farlo noi. Inizio a vangare in un angolo: mi sembra impossibile che quella terra dura e secca, reduce da decenni di incuria e da due anni di ristrutturazione, muratori, macerie varie, possa lasciarmi fare, lasciarmi entrare, lasciarsi trasformare, invece.

Non l’ho mai fatto in vita mia e mai avrei pensato di farlo: ma cinque giorni dopo, complice un Lorenzo entusiasta che mi aiuta con gli attrezzi prestati dal vicino di casa serbo che intercala ogni frase con una bonaria bestemmia (per fortuna pronunciata male), credo senza conoscerne il significato (tanto che ha un cane che si chiama Laica ma Lorenzo ha capito che si chiama Diona), cinque giorni dopo, ossia stamattina, durante la spesa compro anche due scatole di semi per erba e seminiamo. Se tra una settimana o due avremo un giardino o qualcosa che ci assomiglia, è nostro. L’esperienza che ho vissuto con il mio bambino, che il prato venga bene o no, è incancellabile. Questa cosa, non so perché, è come se mi piantasse un seme anche in testa: e capisco che il significato di quello che stiamo vivendo non può essere solo casuale, non può essere solo temporaneo, un fastidio da risolvere. Come ho letto qualche giorno fa in un post online “non dobbiamo trattenere il respiro finché tutto questo non finirà, ma trovare e imparare un respiro nuovo”.

E mi viene da pensare al mio mondo, non il nucleo più compatto che è qui, vicino a me, mi respira vicino, i miei figli, il mio amore, ma al mio cerchio più largo, gli amici, le scuole, i compagni, gli orari da rispettare, la quotidianità che non c’è più. Mi viene da pensare a voi, collegati come me a questo filo sottile. Di quante cose possiamo fare a meno? Di quante persone possiamo fare a meno? Che cosa abbiamo davvero paura di perdere? Non voglio cadere nella retorica, ma nemmeno lasciare andare questa occasione: perché credo che sia questo che ci stanno dando, chi non lo so, ma stiamo avendo un’occasione di rimettere le cose al loro giusto posto dopo uno scossone violento.