L’ultimo saluto a Giulia e il compito immane che ci rimane

Questa mattina a Padova c’è l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin, massacrata a coltellate in venti minuti di odio dalla persona che diceva (solo a parole) di amarla.
Da mercoledì tutto il dolore tornerà insopportabile sulle spalle della famiglia di Giulia e anche su quelle dei genitori e del fratello di Filippo Turetta. A parlare, dopo, saranno le notizie giudiziarie e le iniziative in ricordo di Giulia che, non c’è dubbio, ci saranno.

Ancora però, dentro tutti noi che abbiamo assistito a questo dramma (la scomparsa, le ricerche, gli appelli, il sangue, il ritrovamento, la fine della fuga) non si placa la rabbia. Perchè Filippo è il ragazzo della porta accanto. E Giulia – allegra nei suoi video, determinata nei suoi sogni, disponibile nel percepire il dolore altrui – è nostra figlia, nostra sorella, nostra amica, nostra nipote.

La rabbia rimane leggendo della brama di possedere di Filippo, che è tutto fuorché amore (come ha ricordato Gino Cecchettin), perché nega la libertà e la possibilità di vita dell’altro. La rabbia di pensare che un mostro possa dimorare nella mente di chiunque e che quindi, in quanto donne, non ci si possa fidare di nessuno. La rabbia di pensare che lui che la ricattava ventilandole la volontà di uccidersi, abbia ammazzato invece lei, mentre la propria di vita se l’è preservata. La rabbia di pensare che la troppa disponibilità è una fregatura, che se fosse stata più “stronza”, forse oggi Giulia sarebbe ancora qui. Forse. Questa volta, poi, non possiamo puntare il dito verso altre culture, altri modi di vivere, questa volta possiamo solo guardarci dentro in modo sincero.

Filippo Turetta è un mostro, figlio malato della nostra società o un figlio sano del patriarcato? E’ vittima della sua inadeguatezza o un cinico manipolatore? Probabilmente è un po’ tutto questo e i suoi demoni sono stati troppo poco visti da chi aveva intorno e ha banalizzato quello che stava vivendo (“ne troverai un’altra” è una frase che nessuno che viene lasciato accetta di sentirsi dire). Forse, nessuno ha “visto” davvero Filippo, ma soprattutto nessuno ha saputo davvero mettersi al suo fianco per digli non solo “lasciala in pace, non ti vuole”, ma anche e soprattutto “impegnati a ricostruire te stesso”.

Giovani e possesso
L’uccisione di Giulia Cecchettin ha scatenato confronti in tante famiglie, con i propri figli. I genitori che ne hanno avuto occasione, credo abbiano avuto chiara la percezione di quanto il senso di inadeguatezza, la gelosia, la possessività, siano comuni fra i giovani e i giovanissimi, complici genitori che guardano altrove, o semplicemente ignorano.
In un mondo dove continuamente devi apparire, controllare chi dici di amare fa parte del gioco e del pacchetto-insicurezza di troppi adolescenti. Risultato: fidanzatini gelosi e possessivi che controllano telefoni, profili social, messaggi, abbigliamento, amicizie. Una smania di proprietà sull’altro onestamente preoccupante.

E’ un fenomeno non nuovo che ha un nome: teen dating violence. Ha le sue radici nell’adolescenza e nei primi amori, nella fragilità delle nuove generazioni e nell’incapacità di gestire il fallimento come un processo necessario alla crescita. E’ molto diffusa e quel che è peggio è che viene data per scontata, considerata un atteggiamento normale e comprensibile, sia da tanti ragazzi che ragazze. Come genitori dobbiamo interrogarci, molto. Su che tipo di modelli passiamo ai figli. Come padri e come madri.

La sfida di attraversare l’abbandono
La vicenda di Filippo e Giulia ci lascia un’eredità pesante: riconsiderare la ferita data dall’abbandono. Per questo serve che ciascuno si impegni per camminare a fianco di chi sta vivendo una ossessione, il possesso e il controllo, sostenerlo nell’attraversare i propri “vuoti” invece di proiettare la violenza sull’ex. Il problema non è aiutare “lei” (a denunciare, a fuggire), ma è sostenere “lui” a uscire dalla propria inadeguatezza senza fare danni.
Perché, diciamolo chiaro, il femminile è molto capace di mettersi in discussione, il maschile molto meno e qui sta l’origine di tanti problemi. Lo dimostrano i pochi uomini che si rivolgono ad uno psicologo, solo per fare un esempio. La realtà è che se sei violento e possessivo, banalmente, dovresti chiederti perché una persona dovrebbe aver piacere a rimanerti accanto.

Chi è stato lasciato sa quanto grande può essere il baratro, se non ti è stato dato modo di costruire la tua autostima, la fiducia in te stesso. Anche le donne, le ragazze, vengono lasciate, spesso anche con grande indifferenza, ma non per questo picchiano, minacciano, accoltellano o sparano alla persona che vorrebbero tenere ancora con sé. Praticamente mai. No, le donne non ti tolgono la vita, non vogliono eliminarti fisicamente: è questa la differenza. Possono ferire con le parole, magari, ma il più delle volte sprofondando dentro il loro sentirsi sbagliate. Il femminile, direbbe qualche esperto, proietta il dolore quasi sempre dentro di sé, il maschile lo proietta fuori, lanciando su “lei” tutta la violenza cieca di cui non sa neppure di essere capace, fino a toglierle la vita.

Da mercoledì ci resta un compito immane, che non esclude nessuno: figli, figlie, mariti, mogli, ex, madri, padri, educatori ed educatrici e persino le istituzioni.
Non serve invocare la pena di morte, o l’ergastolo, che non ci ridarà indietro né Giulia e né tutte le altre. Serve accorgersi, presidiare, non lasciare sola “lei”, ma neppure “lui”. Farsi carico, segnalare, ascoltare, anche trovare il coraggio di intromettersi di più. Aiutare a capire che se si è stati lasciati, significa solo che c’è un pezzo di sé che chiede di essere ritrovato, lasciando l’altra persona libera.
Perché la vita è più grande del dolore di “adesso” e nutrendo il bene con un pizzico di fiducia (o di fede, per chi crede), invece di alimentare la propria ossessione, ogni crisi personale può sprigionare un potenziale di miglioramento perché racchiude la più importante occasione di crescita interiore.

“Un problema è un’opportunità in abito da lavoro”, diceva una volta un mio amico. E credo avesse ragione.