Into the wild – La triste corsa nell’Alta Via degli Altipiani senza alberi: “Il sole qui non c’è mai stato”

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Soffiava a cento chilometri orari il vento, nel novembre 2017, quando cadde in quel di Lavarone l’Avez del Prinzep, l’abete bianco più grande d’Europa, oltre duecentocinquanta anni di vita, la pianta che mio padre aveva voluto portarmi a vedere quand’ero piccolo, l’albero che volevo mostrare di lì a poco alle mie nipotine. Io ci ero appena passato, a salutarlo, in uno di quei folli solitari giri lunghi di corsa che hanno bisogno di una meta (e che meta eri Avez!) per le mie andate e ritorno da casa in mezzo ai boschi e ai sentieri.

Fu una coincidenza, per Maria Luisa Clerico: proprio quel giorno ritirava le prime copie del suo libro fiaba sulla leggenda dell’Avez. Invece, fu una premonizione per me, che nello stupido tentativo di superare il magone, tra me e me ripensavo al rumore dell’albero che cade e al silenzio della foresta che cresce. Senza pensare, nemmeno per sbaglio, al rumore e all’umore che genera una foresta di abeti rossi che cade.

Successe un anno dopo, quando i venti soffiarono anche duecento chilometri orari sull’Altopiano di Asiago, sulla mia valle e su tutte le vallate del Veneto. Quella sera di fine ottobre ce la ricordiamo tutti, il rumore del vento resta ben impresso a chi vive in montagna. Non saprei di certo riprodurlo ma la memoria conserva il bisogno di ricordarlo. Tutti al buio, senza luce, io al lume di candela a giocare le prime partite a carte della vita insieme a mia madre. Il sonno poi a prenderci col vento cessato prima del nuovo giorno.

Ho provato a immaginarmi, nei giorni successivi, i diversi risvegli del giorno dopo. Ho provato a immaginarmi il titolare di Rifugio Valmaron al mattino presto, svegliarsi tutto solo in un’altra Piana di Marcesina; i forestali alla luce del giorno prendere coscienza di cos’era successo tra il Ghertele e il Termine verso Vezzena, gli amministratori locali guardare alle Melette, tra i progetti attesi fino al giorno prima e il deserto circostante del giorno dopo.

Fu una coincidenza per me che solo una settimana prima ero riuscito a terminare l’Alta Via degli Altipiani. Immediatamente pensai a cosa poteva essere ora del sentiero dei Piccoli Maestri o del sentiero dei Cippi, all’estremità nord dell’Altopiano, tra i Castelloni di San Marco e la Piana di Marcesina. Fu subito un’ammonizione per me che, nel bisogno di vivere quel magone, mi misi a progettare un giorno intero tra la foresta di abeti rossi caduti.

La magia del trail e la forza dei social danno subito modo di incontrarsi e far amicizia. Con un paio di messaggi mi ritrovo a Valmaron la mattina presto insieme a Luca Contri di Gallio, col progetto di correre dove si può e passare tra le piante cadute lungo il sentiero dei Cippi. Meta l’Anepoz, il cippo n.1, il sasso ad incudine un po’ asburgico un po’ veneziano che sprofonda su Grigno.

L’atmosfera è subito surreale. Non c’è foto, non c’è video, non c’è drone che ti faccia percepire quel che vivi nel bosco. Dalla Forcellona verso Val Coperte subito ci troviamo il bosco raso al suolo, ci muoviamo agevolmente solo perché si prosegue su strada sterrata, ma in Val Coperte siamo nel bel mezzo del gioco dello shanghai. Ci muoviamo con fatica tra neve e ghiaccio, Luca camminando in equilibrio sui tronchi, io spesso scegliendo di passarci nel mezzo. I cippi 19 e 20 sono sepolti; ci facciamo un’idea precisa delle difficoltà e dei rischi che i boscaioli incontreranno per tagliare i tronchi intersecati ed in tensione tra loro.

Torniamo sullo sterrato della piana e puntiamo verso Lagonsin. Presto però perdiamo i riferimenti, Luca conosce da fondista le strade come sono battute d’inverno ma nulla sembra come prima, tra strade chiuse dagli alberi ancora a terra e paesaggio radicalmente cambiato. E’ incredibile, mi dice Luca, scoprire il sole dove non c’era mai stato, ora che il bosco non c’è più. Lagonsin ci spiega che risalire anche la strada tra i tronchi è impossibile, ad Anepoz non arriveremo. Puntiamo a più non posso verso Buson e Campo Cavallo, serve a darci velocità ma a farci ancora più male perché verso il cimitero militare tutto intorno di bosco in piedi non ne vediamo proprio più.

Riprendiamo il gioco dello shanghai tra i cippi 10 e 13. Non si corre di certo, ma si respira il dolore del bosco a terra, esultiamo non appena vediamo un cippo, Luca si arrampica per fotografarlo tanto bisogna far fatica per rimanere sul sentiero. Torniamo verso la Forcellona dopo un chilometro tra le piante percorso in un’ora. Guardo l’orizzonte, questo panorama di alberi a terra, seguo Luca di corsa in salita, si va verso il ritorno. La Gopro ha filmato ben poco di un’avventura che ricorderò a lungo. In poco tempo ho memorizzato i luoghi, perso e ritrovato i riferimenti di queste montagne di cui non puoi non innamorarti.

Ti rimane il bisogno di soffrire con lui, questo magnifico e splendido Altipiano. Poche sere dopo mi spiegano come subito dopo la Grande Guerra furono piantati oltre dieci milioni di abeti rossi, ordinatissimi, quasi geometrici, in linea retta tra loro. Recuperando in fretta così una enorme superficie boschiva, persa davvero solo dove i combattimenti furono più cruenti. Ora abbiamo bisogno di ripulire in fretta i boschi e di diversificare poi le piante, accompagnando la natura come da sola ha sempre saputo fare nel lasciar crescere boschi misti.

L’Altopiano e la sua gente ce la faranno forse anche meglio di allora. Con la memoria verso i tanti autori che questa terra l’hanno vissuta e raccontata in modo sublime. Con l’attenzione guardinga a preservarla dai comportamenti degli uomini. Perché tanti antefatti di queste raffiche di vento improvvise, lo sappiamo benissimo, sono degli uomini. Come fossimo tanti ostinati colonnelli Procolo, narrati da Buzzati e girati da Olmi, tutti in cerca di liberare a tutti i costi il vento Matteo.

Memori e in guardia, io e Luca intanto torniamo a correre, nel nostro Altopiano.

(NB: E’ vietato percorrere l’Alta Via degli Altipiani – noi lo abbiamo fatto in via eccezionale – in quanto alcuni tratti, il sentiero dei Cippi in particolare, sono chiusi proprio per i danni da maltempo)