#Vicenzaore16 – Cronache di normalità familiare in tempi non normali: svuota il cassetto

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Uno scossone violento. Mettere a posto le cose viene meglio, se si accetta prima di distruggere l’ordine. Pare un controsenso ma è verità. Per mettere a posto un cassetto bisogna svuotarlo. Per mettere in ordine una libreria, tirare giù tutti i libri. Per riordinare i documenti, spargerli tutti sul tavolo e ricominciare. Contemporaneamente all’ordine, poi, arriva lo sfalcio: c’è sempre qualcosa da buttare, qualcosa che era lì ma poteva anche non esserci, c’era da chissà quanto tempo a occupare spazio per un passato valore che nemmeno ci ricordiamo più.

Di questa mia tendenza allo space clearing hanno da sempre il terrore i miei figli, che appena si distraggono si ritrovano con giochi in meno e spazio in più. Era roba che non usavano, macchinette rotte, puzzle incompleti, parti mancanti che sarebbero potuti rimanere lì in eterno senza un vero motivo. Nove volte su dieci non se ne accorgono, eppure non avrebbero mai rinunciato spontaneamente a quei pezzi. Voglio dire che per fare spazio, per fare ordine, spesso serve un potere superiore. Non sto pensando necessariamente a Dio, basta un trasloco.

Devi distruggere l’ordine, per capire che di tante cose puoi fare a meno, anzi, devi. Devi essere costretto a fare in fretta, a scegliere, ad avere un obiettivo nuovo. Devi svuotare il cassetto, buttare tutto per terra, sentire il disagio per quello che vedi e che era nascosto, separartene e ripartire. Vicenza ore 16 ai tempi non normali del Coronavirus. I bambini sono dal papà, l’unica altra persona che possono frequentare oltre a me e Giacomo: piccoli privilegi di figli di separati, che invece di essere confinati in una casa sono confinati in due.

E’ passato esattamente un mese dal il primo allarme, l’avviso delle scuole chiuse, quando tutto sembrava solo precauzione; un mese dal ritrovarsi comunque tutti in centro, come se nulla fosse, perché ci mettiamo tempo a capire e a metabolizzare il grande cambiamento: e siamo esseri umani, e italiani per giunta, quindi di natura, cultura e tradizione propensi a pensare che non possa essere così grave, in fin dei conti, la situazione; un mese dopo allo “stare a casa ma anche no”, ora stiamo vivendo i giorni dello “stare a casa, Cristo! Altrimenti moriremo tutti”.

Un mese dopo: abbiamo svuotato più o meno tutti il cassetto per terra (oltre che gli scaffali dei supermercati facendo la spesa per i prossimi due anni, si sa mai: perché noi italiani possiamo stare senza tutto, ma senza buon cibo no). Quello che i primi giorni sembrava materia impossibile, minaccia visionaria, è pane quotidiano: stare a casa, tutto il giorno, per settimane, con i bambini, lavorando, senza uscire, vivendo. Quello che c’era nel cassetto, l’abbiamo trovato sparso malamente sul pavimento: la sveglia presto; gli orari frenetici; daivestiticheètardipossibilechenonmiascoltimai; cosa mi metto; c’è anche il cane da portare fuori; scuola 1; scuola 2; secondo caffè; lavoro; telefonate e messaggi di lavoro; messaggi da lui; riscuola1; pranzo; compiti; riscuola2; parcogiochi; un giro in centro; ci prendiamo un gelato?; amici; andiamo a mangiare una pizza?; domani ceniamo da Alessia; ho un colloquio; mi tieni Eva un’ora mentre vado dal cliente?; l’aperitivo; un giro all’Ikea; torno tardi.

Fare il vuoto, per guardarlo in faccia, senza paura. Chi siamo davvero senza avere nulla intorno? Io, che ho sempre cercato un significato profondamente esistenziale perfino nei traslochi, continuo a pensare che la terra, l’ordine universale delle cose, ci abbiano preso per le spalle e scossi, incasinando tutto intorno semplicemente fermandoci. Noi formichine impazzite brulicanti e frenetiche, d’improvviso ferme. A casa, con le persone che di solito vedi poco, a casa tutto il tempo, in un grande fratello privato, quanti scopriranno di amarsi di più, quanti scopriranno di non amarsi più? Il cassetto è vuoto!