La leggenda del re pescatore: la ricerca del Graal attraverso una bizzarra amicizia  

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Il Re Pescatore o il Re Ferito è un personaggio ricorrente nelle innumerevoli opere nate da Chrétien de Troyes e sarebbe di notevole difetto parlare del “La leggenda del re pescatore” senza accennare alle origini letterari a cui lo sceneggiatore Richard LaGravenese (I ponti di Madison County, L’uomo che sussurrava ai cavalli) si è ispirato. 

Partiamo da codesto personaggio: un uomo menomato nel corpo e nell’animo, custode della sacra reliquia, che rende questa sua menomazione causa di desolazione e devastazione per il suo stesso regno ed è evidente, per i lettori che abbiano già visto il film, che questa figura si riferisca al personaggio di Jack Lucas (Jeff Bridges). 

Liberamente ispirato al celebre conduttore radiofonico Howard Stern, Jack è uno speaker radiofonico carismatico ed impudente caduto in disgrazia dopo aver dato libero sfogo alle frustrazioni di un radioamatore che si tramuteranno in una terribile tragedia. Una notte Jack tenterà il suicidio, ma un folle clochard di nome Parry lo salverà e lo aiuterà a rimettersi in sesto. 

Nella storia Parry, interpretato meravigliosamente dal compianto Robin Williams, è un vagabondo che vaga per le strade newyorkesi e si scoprirà essere stato in passato un eminente professore universitario che preso dallo sconforto per la morte della moglie ha perso il senso della ragione. 

Ordunque si nota facilmente quanto il personaggio di Jack sia connesso alla figura del Re Pescatore e quanto Parry, già il nome giocosamente lo identifica, sia legato a quello di Parsifal, ovvero a quella figura cavalleresca, nata e cresciuta nella foresta, che più di ogni altra più si è avvicinata al Santo Graal. Quindi un viaggio dove elementi epici e ordinari si mescolano poeticamente e follemente, solo come Terry Gilliam sa fare.  

Verrebbe da pensare che la storia nulla è più che una trasposizione in chiave moderna dell’epico racconto di Re Artù e i cavaliere della tavola rotonda, ma ciò che Gilliam narra non è solo epica o narrativa medievale. È la storia di un incontro tra due persone molto diverse tra di loro che aiutandosi riescono a ritrovare se stessi e quell’amore che gli era stato tolto o che avevano miseramente perduto. Una storia più vicina a “Rain Man” di Barry Levinson che non ai romanzi cavallereschi. 

Jack è un giovane figlio del materialismo americano, sempre alla moda e con un certo stile, ma ben presto ci rendiamo conto di quanto grigia sia la sua vita. Gli stessi abiti che indossa sono spenti, non vivacizzano la sua persona, e si sciuperanno presto quando finirà sulla strada senza il becco di un quattrino. Simbolo evidente di una vivida critica alla mentalità capitalista tesa esclusivamente al successo e all’autoconservazione.    

Un personaggio che, appena esce dai confini protettivi dategli dalla sua fidanzata, si riduce velocemente alla sua reale condizione di miserabile, perdendo ogni certezza o credo. Penso che questo si verifichi nella vita di ogni persona, passando da un periodo in cui ogni nostra certezza viene dissacrata per giungere poi a qualcosa di ulteriore ed è fondamentale che questo si verifichi per il proprio sviluppo intellettuale e soprattutto personale.

Anche il personaggio di Parry risulta particolarmente affascinante, non solo perché in lui il riferimento al ciclo arturiano sia evidente con quel mantello, quel poncho e quel cappello che sembrano usciti da un quadro di Bruegel, ma perché la sua caratterizzazione è di fondamentale importanza per i fini della trama, regalando allo spettatore innumerevoli sfumature di un animo lacerato che non si lascia vincere. Famosissima in tal senso la sequenza in cui Parry fugge dalla raccapricciante figura del Cavaliere Rosso, rappresentate quel trauma che lui è incapace di affrontare e che lo perseguita non lasciandogli la possibilità di ricominciare la sua vita. Williams è riuscito poi a dare un’umanità ed una profondità incredibile a questo personaggio, forse perché viveva a modo suo quella spaccatura interna che lo ha fatto soffrire per un lungo periodo della sua vita.

Terry Gilliam con questo film tornò in seno alle produzioni hollywoodiane che da sempre e giustamente ha detestato, soprattutto dopo il disastroso esito del “Le avventure del barone di Munchausen” che quasi gli costò la carriera, ma Gilliam riuscì con la collaborazione di LaGravenese, degli attori e di tutta la troupe a realizzare un film struggente che meraviglia per quanto i diversi sapori, il dramma, il comico, il grottesco, il romantico e la critica, si mescolino alla perfezione, donando agli spettatori un’opera che si frappone tra il nostro mondo, quello più ordinario, e quello più intimo e folle del regista.   

Un film che parla di un’amicizia che non si crea solo per esigenza, ma anche dalla follia che è forse l’unica cosa che ci lascia senza filtri e quindi esposti ai nostri traumi e ai nostri difetti e forse solo la follia è l’unica vera arma che possiamo usare per affrontare una vita insensata, ricolma di inutilità e banalità.