Scacco al pensiero: il “caso Marostica” e la cultura che non può essere pedina

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A Marostica, città che da oltre un secolo celebra la strategia e la riflessione attraverso la sua celebre Partita a Scacchi vivente, si è consumato un episodio che merita più di una lettura superficiale. La giunta comunale, guidata dal sindaco Matteo Mozzo, ha deciso di non approvare la rassegna estiva di film proposta dal Comitato della Biblioteca civica, ritenendo alcuni titoli “troppo politici” o “troppo impegnati”.

Tra questi, il documentario premio Oscar No Other Land, opera israelo-palestinese che racconta la resistenza civile in Cisgiordania. La decisione ha provocato le dimissioni in blocco del comitato, compresa la presidente Laura Dinale, figura nominata dallo stesso sindaco. È un fatto che, pur nella sua dimensione locale, solleva interrogativi universali: quale rapporto dovrebbe intercorrere tra potere e cultura? E soprattutto, può la politica decidere cosa è “troppo” per la cittadinanza? Mozzo, eletto nel 2018 con il 33,3% dei voti in un quadro frammentato, ha consolidato la sua leadership nel 2023 con il 62,9% delle preferenze. Un’ascesa che testimonia una fiducia crescente, forse anche per il suo stile decisionista, che molti apprezzano per fermezza e chiarezza. Ma proprio in questo stile si annida la domanda: può l’autorevolezza amministrativa estendersi al giudizio culturale? Può un sindaco, che ha scelto di tenere per sé la delega alla cultura, diventare anche il curatore del pensiero?

La cultura, per sua natura, è il luogo del dubbio, della pluralità, della provocazione. Non è un servizio da erogare, ma uno spazio da custodire. “La libertà è il primo bene di un popolo civile”, ammoniva Cavour nel 1852, opponendosi al restringimento della stampa. E Hannah Arendt ci ha ricordato che “la società di massa non vuole cultura, ma svago”, e che proprio per questo la cultura deve resistere alla tentazione dell’intrattenimento facile. In questo senso, la richiesta di “leggerezza” avanzata dall’amministrazione marostegana suona come una forma di anestesia del pensiero. Ma è davvero questo il compito della cultura pubblica? Il “caso Marostica” non è una censura nel senso classico del termine. È qualcosa di più sottile: una selezione preventiva, una curatela politica del palinsesto, una forma di indirizzo che, pur non vietando, orienta. E qui la riflessione si fa più profonda. “So di non sapere”, diceva Socrate, e forse è proprio questa la virtù che ogni amministratore dovrebbe coltivare nel campo della cultura: il rispetto per ciò che non si conosce, per ciò che può disturbare, per ciò che non si controlla. La cultura non è un’emanazione del potere, ma il suo contrappunto. È ciò che lo interroga, lo mette in discussione, lo costringe a pensare.

A Marostica, il Comitato Biblioteca aveva proposto un ciclo di film pensato con giovani universitari, tra cui Ida di Pawlikowski, La notte di Antonioni, In the Mood for Love di Wong Kar-wai. Opere che parlano di memoria, di identità, di relazioni. Non propaganda, ma pensiero. Eppure, anche questi titoli sono stati ritenuti “troppo impegnati”. È legittimo chiedersi: quale idea di cultura guida oggi le amministrazioni locali? E quale idea di cittadino ne deriva? Albert Camus scriveva che “la libertà è il valore assoluto senza il quale anche la società perfetta sarebbe una giungla”. E Sandro Pertini, con la forza della sua coerenza, ammoniva: “Sii sempre, in ogni circostanza e di fronte a tutti, un uomo libero, e pur di esserlo sii pronto a pagare qualsiasi prezzo”. La libertà, anche quella culturale, non è un lusso: è il fondamento della democrazia. E la democrazia non si misura solo nel consenso elettorale, ma nella capacità di accogliere il dissenso, di promuovere il pensiero critico, di lasciare che anche ciò che disturba, che ci appare diverso, che in qualche modo è inaspettato e al di fuori di una propria “comfort zone” valoriale, abbia cittadinanza.

A Marostica, la partita non è tra film e politica. È tra visione e controllo, tra apertura e selezione, tra cultura come spazio di libertà e cultura come strumento di governo. E come in ogni partita a scacchi, ciò che conta non è solo la mossa, ma l’intenzione che la guida. Il potere che non teme la cultura è quello che sa convivere con il dubbio. E che non teme il vento del cambiamento inteso come evoluzione. E forse, proprio in questo, si misura la sua grandezza.

 

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