“La mia famiglia divisa e il Natale che non ho mai avuto: vi sto ancora aspettando”

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera perché ci è sembrata qualcosa di più di un semplice sfogo personale. È un appello che potrebbe appartenere a molti: a chi vive il Natale come una festa piena di luci ma anche di ombre, a chi porta nel cuore distanze mai spiegate, a chi sente il peso di legami spezzati senza un vero motivo.
La condividiamo perché parla con sincerità, senza accuse né pretese, e perché forse – in questo tempo dell’anno in cui tutto sembra chiedere riconciliazione – può toccare corde che spesso preferiamo non sfiorare. È la lettera di un uomo, ma potrebbe essere quella di un figlio, di un fratello, di un amico. O di ciascuno di noi.
Caro Eco Vicentino,
vi scrivo alla vigilia del Natale perché, per la prima volta nella mia vita, sento il bisogno di far arrivare la mia voce oltre le mura di casa, oltre i silenzi che mi hanno accompagnato da bambino fino a oggi. Non cerco pietà né giudizi: solo un ascolto, e forse un po’ di coraggio.
Sono cresciuto in una famiglia divisa. Non da tragedie, non da colpe indicibili, ma da contrasti mai chiariti, da divergenze che nessuno ha mai avuto la forza di affrontare. Da bambino non capivo perché i miei nonni paterni e quelli materni non potessero sedersi alla stessa tavola. Perché a Natale bisognava scegliere: o di qua o di là. E ogni scelta era un’assenza. Ogni sorriso era metà. Ogni piatto pieno era circondato da posti vuoti.
Ricordo tavole imbandite e silenzi pesanti. Ricordo lo sguardo di mia madre che cercava di nascondere la malinconia, e quello di mio padre che fingeva che andasse tutto bene. Ricordo che, mentre gli altri bambini correvano tra zii e cugini, io mi chiedevo cosa stessero facendo i miei. Se pensavano a me. Se sapevano che esistevo. Oggi i nonni non ci sono più. Restano qualche zio, qualche cugino che non ho mai conosciuto davvero. E mi domando:
Che cosa staranno facendo? Mi penseranno? Sapranno almeno perché siamo divisi, o anche loro vivono dentro un muro costruito da altri, senza averne colpa? Mi chiedo se sia possibile chiamarlo Natale quando abbiamo paura di rompere quel muro fatto di non detti. Se posso diventare uomo, invecchiare, avere un giorno la chioma bianca… senza aver provato almeno una volta a ricucire ciò che si è strappato. Senza aver tentato di riunire ciò che si è rotto, forse per motivi che nessuno ricorda più. L’unica cosa unita che ho sono le foto dei nonni, paterni e materni, l’una accanto all’tra nel comodino in camera mia.
E allora questa lettera non la scrivo a Gesù Bambino, né a Babbo Natale. La scrivo a voi.
A voi che non mi parlate da anni, ma sapete che esisto. A voi che vorrei abbracciare senza spiegazioni. A voi che non mi avete fatto del male e che io non ho ferito, eppure viviamo distanti come se fossimo invisibili l’uno all’altro. La scrivo con la presunzione – sì, la presunzione – che possa smuovere qualcosa. Non solo in voi, ma in chi leggerà queste righe. Per chi vive solo e non l’ha scelto. Per chi ha rotto rapporti per banalità, per orgoglio, per stanchezza. Per chi ha scelto l’indifferenza credendo fosse una protezione, e invece è diventata una bestia che logora, che divora, che non smette mai di avere fame. Quanto male fa non dirsi più nulla. Quanto male fa fingere che non importi. Che questo Natale ci liberi da questi pesi inutili. Che ci faccia riabbracciare. Che ci permetta di ripartire senza scavare nel passato, senza rinfacciare, senza spiegare. A me basterebbe un abbraccio.
Solo quello. E ricominciare.
Con speranza, un uomo che non vuole più avere paura di amare.
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