CineMachine | Babadook

REGIA: Jennifer Kent
CAST: Essie Davis, Noah Wieseman, Tim Purcell, Daniel Henshall, Hayley McElhinney, Barbara West, Benjamin Winspear, Cathy Adamek, Craig Behenna
GENERE: horror, drammatico, thriller
DURATA: 90 minuti
DATA DI USCITA: 2014 (Australia)

Ba-ba-ba-dook-dook-dook … Più tu lo respingerai, più lui si impossesserà di te. Inizia la paura, quella vera, che esiste nel mentre che chiudi gli occhi e, non appena li riapri, l’oscurità non cessa di esistere e nemmeno la paura. Nell’oscurità di una stanza, è proprio li che si nasconde. Lui sa dove sei, sa cosa pensi e sa quando sarai abbastanza fragile per colpirti. Babadook, un film horror di Jennifer Kent.

Il film è uscito all’ultimo momento nelle sale cinematografiche italiane del 2015 ed è stata, devo dire, una vera rivelazione. Rispetto a molte altre pellicole, questo non ha certo avuto la pubblicità che penso si meritasse (penso che in Italia, inizialmente, non lo avessero nemmeno considerato), dato che il film è, sia a livello tecnico e sia a livello di storia, davvero magnifico. Un horror scritto e diretto come Dio comanda, contando che rappresenta il primo e vero esordio cinematografico della regista australiana, la quale è riuscita, a mio parere, a trovare il giusto equilibrio tra la trama e il carattere dei personaggi, ma soprattutto è riuscita a creare una tensione che non gioca su improvvisi sbalzi di suono o movimenti di macchina repentini, ma anzi realizza delle scene pulite a livello di suono, tal volta completamente assente, e spesso con inquadrature fisse che lasciano alla scena libero respiro e in cui i soggetti si possono muovere ed esprimere totalmente, grazie anche a un cast davvero strabiliante che è valso ogni richiamo della produzione (Noah Wiseman, al suo preambolo sul grande schermo, è stato richiamato ben cinque volte prima di essere scelto per il ruolo del ragazzino Samuel).

Una vera e grandissima prova quella della regista australiana, che ha saputo dimostrare la sua conoscenza cinematografica e se ne è servita magistralmente, portando all’interno di diverse scene spezzoni di cortometraggi appartenenti al cinema muto di Georges Méliès e, in generale, dell’espressionismo tedesco, molto apprezzato dalla stessa Jennifer Kent, o anche alcune sequenze del film I tre volti della paura di Mario Bava, ideatore dello slasher. Inoltre, si notano anche dei rifermenti al grande Stanley Kubrick. È inevitabile non pensare a un confronto tra l’interpretazione di Essie Davis, che nel film riveste il ruolo di Amelia, la madre del piccolo Samuel, e l’interpretazione di Shelley Duvall e Jack Nicholson nel film Shining. Il personaggio di Amelia ha descritto dentro di sé il carattere sia dell’uno che dell’altro personaggio, creando alternativamente le diverse condizioni che trascendono dall’horror e creano spavento sia attivamente che passivamente. Inoltre, anche a livello di montaggio, abbiamo degli accenni al film di Kubrick, chiari come il sole, che riconoscerete e apprezzerete una volta guardato il film. Ovviamente se non conoscete Kubrick, è meglio se v’informate, o almeno andiate a guardarvi Shining, per riconoscere questa impronta che la regista ha voluto lasciare sulla pellicola. Poi personalmente, Shining, come anche tutto il lavoro di Kubrick andrebbe guardato almeno una volta nella vita.

Tornando al film, parliamo del personaggio di Amelia, il quale, grazie anche ad una interpretazione davvero accattivante e molto naturale dell’attrice Essie Davis, è una protagonista che senza parole parla apertamente e riesce a trasmettere un malinconia iniziale pazzesca che poi si trasformerà in un vero e proprio terrore, passando dall’amore materno per il proprio figlioletto ad una forza distruttiva incontrollabile (un po’ alla Darren Aronofsky, diciamo). Il tema del rapporto tra madre e figlio permane in tutto il film e fanno vedere le enormi difficoltà di una madre alla prese con un figlio spasmodico e nocivo in qualche modo per la madre, ma chi è che realmente sta creando il dissidio tra i due? Un essere nato da un libro di fiabe, intriso nell’oscurità, che appare solo in brevi momenti fatali. Infatti Babadook non è il tipico antagonista a cui molte pellicole horror d’oggi ci hanno abituati, ma è una sorta di condizione psicologica che prende letteralmente vita. La regista non è interessata a far vedere concretamente la morte fisica, nuda e cruda, ma quanto lo spegnersi, l’atrofizzazione dei propri sentimenti e le conseguenze che ne derivano sulla vita quotidiana e sulla psicologia della persona che, nel tempo, si ritrova incapace di controllare la propria sofferenza o nascondere a se stessa la verità. Sono queste le caratteristiche di un vero horror. Muti lamenti, uccisioni, torture sono elementi di facciata che propinano orrore e disgusto in modo, alle volte, del tutto gratuito, ed invece, in questo film, gli elementi psicologici, più astratti, si impregnano nello sguardo dello spettatore e lo porta su un altra dimensione, che è quello della propria intimità, in cui risiedono le sue paure più recondite.

A livello di location, il film viene girato per la maggior parte del tempo nella casa dove vivono Amelia e Samuel, e sembra, devo dire, un luogo adatto dove far apparire uno spettro, senza però cadere nell’esagerazione. Infatti Jennifer Kent, insieme allo scenografo Alex Holmes e il direttore della fotografia Radek Ladczuk, hanno cercato di creare un ambiente che potesse apparire realistico, ma in cui la presenza di Babadook non fosse totalmente fuori luogo. Difatti sono presenti dei colori molto spenti, sfumati che non brillano né spiccano durante le scene. Viene in mente Tim Burton o Roman Polanski guardando un set di questo genere che concede sia scene amorevoli nella quotidianità della piccola famiglia, sia scene irrequiete, distorte, di silenzio inibitorio ed opprimente, che mettono lo spettatore in allarme e alla fine riescono a stupirlo con degli effetti molto naturali e semplici, ma che rendono molto efficiente l’impatto emotivo. Preciso che il film è costato appena 2,5 milioni di dollari che hanno dato i loro frutti, facendone uscire, tutto sommato, un piccolo capolavoro. Alla faccia delle produzioni milionarie che alla fine valgono la metà di film come questi, dicendola fuori dai denti e vogliate perdonarmi l’espressione personale. L’ambiente è un po’ il rispecchiarsi dello stato d’animo dei protagonisti che è lo stesso che poi da ancora più forza allo spettro. Un senso di schifo, di ripudio, di uno smielato tentativo di riconquistare la tranquillità, la felicità perduta, decadendo sempre più nel rifiuto della realtà e dello stesso Babadook.

L’elemento che spicca nella storia è proprio il libro in cui vive questo fantasma. A occuparsi delle illustrazioni del libro pop-up è stato Alexander Juhasz, vincitore nel 2007 del premio Gradiva Award per il Miglior libro per bambini e, nell’anno precedente, del Gold Metal Award della Society of Illustrators. Buffo che proprio uno scrittore per l’infanzia abbia creato un libro maledetto. È un po’ il modo di dire della regista di svegliarci e di accendete la fantasia. Il film è puro terrore. Non si riesce a capirlo o apprezzarlo se non si accende il cervello e ci s’immagina cosa potrà accadere o come sarà Babadook. Nessuno sa com’è fatto, tranne per alcuni dettagli, come il cappello e il cappotto nero.
Più che un mostro, Babadook, che in serbo vuol dire “uomo nero”, non è solo una reminiscenza infantile, ma è più che altro una essere che creiamo quando non vogliamo fare i conti con la realtà, quanto non affrontiamo le nostre paure, i nostri tormenti, e non ci permettiamo di andare avanti e di vivere. Quando c’è solamente l’oscurità dietro di noi, perché la vorremmo vedere anche di fronte? Eppure l’accettazione di tutto questo, di tutte le frustrazioni, di tutte le solitudini che una persona può vivere è l’unico modo in cui possiamo andare avanti.