Into the wild – Chiusi dentro, il mondo lasciato fuori: fra silenzio, stupore e inquietudini

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“Al Polo Sud gli americani hanno costruito una base. Gli scienziati e i tecnici addetti alla manutenzione vi abitano per molti mesi di fila, isolati dal mondo. Un anno, a festeggiare il Natale, si ritrovarono in novantanove. Uno di loro era riuscito a introdurre di nascosto novantanove sassi che distribuì in dono, tenendone uno per sé. Nessuno vedeva un sasso da mesi. Alcuni da più di un anno. Solo ghiaccio, neve e oggetti creati dall’uomo. Tutti rimasero in silenzio a guardare e toccare il loro regalo. Lo tennero in mano, lo soppesarono senza dire una parola”

Erling Kagge

Strani queste settimane dentro casa. Se rimbomba in ogni dove l’invito a restare a casa, significa che ancora non ci viene spontaneo, che l’aria aperta, la relazione, gli altri rimangono ancora il nostro habitat. Mai come oggi siamo aggrappati alle relazioni virtuali, mai come ora sentiamo però il bisogno di farne a meno. Da parte mia mi concentro sul mio lavoro essenziale, come lo ha enfaticamente definito il Governo, anzitutto per farmi passare questo mancato contatto con la natura. Disgraziatamente faccio parte della comunità dei runners, gente che in queste settimane, le ha provate tutte per non arrendersi, prima ancora di usare il buon senso.

L’attività motoria in fondo, chi corre per sentieri, la pratica da sempre senza che vi sia nessuno a metri di distanza. L’idea però che potesse succedere quel che mai succede, quel piccolo incidente che la sanità oggi non può permettersi, teneva lontano dai terreni impervi. E allora avanti e indietro per lo stesso circuito nei pressi di casa a memorizzare sempre gli stessi sassi. Poi sono arrivati i duecento metri da casa, e tutti a disegnare percorsi intorno casa. Gli ottanta giri del mio circuito di centocinquanta metri con una settantina di gradini, memorizzandone le striature, sono stati il termometro più autentico di questa malattia. Poi ci han tolto anche quelli e rimane, sconfinata l’ammirazione per chi, potendo, ha saputo festeggiare il suo compleanno con quattromila metri di dislivello, salendo e risalendo le scale dentro casa!

Camminare prima, correre poi, è la mia chiave di volta per saper chiudere fuori il mondo. Solo il ritmo dei passi, solo il rumore del respiro. Il modo migliore per riflettere davvero, per non pensare a nulla, per mettersi in discussione e trovare magari un nuovo modo di pensare. Lo scopri mentre il fruscio tra i rami, il guizzo di una lucertola o il gorgogliare di una cascatella sono l’unica cosa che senti. Uno stimolo per guardare meglio il mondo, per vederci più chiaro, per mettere a fuoco le convinzioni, per scoprire i propri torti.

Questi pomeriggi di marzo e aprile tutto è diverso. Te ne accorgi quando sparisce ogni rumore di fondo, quanto ciò che definisce il tuo orecchio è solo assenza. Nessun veicolo a distanza, la valle sgombra da ogni attraversamento, tutti dentro casa, tranne tu a correre a centinaia di metri di distanza, prima di ogni buon senso. Come se il fruscio della puntina del giradischi non ci fosse più, come se l’orecchio distinguesse proprio quel sordo rumore di fondo nel momento in cui non è. All’improvviso ogni incontro fugace scomparso, ogni fruscio, ogni brusio, ogni tonfo, tutto scomparso.

Nella natura troviamo da sempre il silenzio dentro di noi. Ora è il mondo circostante a rivelare tutto il silenzio intorno a noi. Capita a tutti un istante di assoluto silenzio, la gioia per le piccole cose che ti lascia perdere nel vuoto. Ammirando i girini, inseguendo un tramonto, ascoltando l’aurora. Le parole spesso distruggono l’incanto che ammiriamo, nulla può raccontarlo. Uno sguardo verso l’orizzonte sa essere attimo eterno. Un istante in cui tutto si ferma. Attimi che ti permettono di vivere, non semplicemente di esistere. Attimi che poi vorresti raccontare ma non ne sei capace. Niente potrebbe rendere l’esperienza della natura che ci siamo fatti.

L’avventura, piccola o grande che sia, è anzitutto stupore. Montagne, deserti, oceani regalano isolamento, contemplazione, racconto. Nulla come il silenzio sa raccontarti il sottile confine tra lo stupore e la paura. Correre di notte, ad alta quota, tra il freddo e le creste, camminare senz’acqua fra le lagune salate della Camargue, aspettare una notte freddissima in mezzo al deserto, mantenere la calma nelle condizioni atmosferiche più impensabili. Paure e stupori che sono tutte dell’aria aperta, degli spazi incontaminati, fuori casa, proprio dove oggi non siamo.

Torni a casa, ragioni tra te e te su queste cose. Scopri che tra stupore e paura, si è fa strada l’inquietudine. Scopri che a mancarti sono le persone, le relazioni, il tatto, perfino il contatto. Non sei mai stato smanioso di abbracci, eppure capisci che oggi abbracceresti chi mai hai abbracciato. Perché è degli uomini, l’alternare lo stare con se stessi con l’insopprimibile bisogno di stare con gli altri. Ascolti tutto te stesso, scopri come il tuo è un bisogno senza distinzioni, senza confini, senza patrie.

Passano le settimane e, tra un cliente e l’altro, mancano i tuoi sentieri e i tuoi sassi. Un brivido nella notte, scendi in garage e prendi di corsa le scale. Tre rampe per il balcone, quattro per l’abbaino. Uno, due, dieci volte. Fino a guardare col fiatone il cielo stellato: lo stesso cielo dove all’aperto nella notte buia rassereni l’animo, tiri le somme, dai meno importanza a tutte le tue convinzioni, scopri passeggere e di poco conto molte cose.

Il cielo stellato sopra di me. Sotto, ogni singolo sasso, le gioie per le piccole cose, lo splendore della natura a ogni latitudine, le persone che non abbracciamo, le misere patrie che si parlano addosso. Si acquieta il fiato, con la testa comunque rivolta all’insù, tra le convinzioni e le illusioni. Quanta luce, quanto rumore non ci permettono ogni giorno di guardare in alto. Forse la natura ci sta solo dando l’occasione di guardarci meglio dentro, per essere domani, donne, uomini, Paesi migliori.