Into The Wild – Quel giorno che mi dissi di cominciare a correre

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Uno spaccato del Dolomiti Winter Trail

Sapevo da tempo che la mia vita in mezzo alla cosa pubblica, dal mio piccolo Comune alla politica nazionale, aveva bisogno di un lungo periodo di pausa, di uno stop ai comportamenti imposti, agli atteggiamenti di circostanza, alle false attenzioni rivolte.

Sapevo anche che ciò sarebbe avvenuto lungo il Cammino di Santiago, da Lourdes sino a Finisterre. Sapevo che sarebbe stato un lungo momento introspettivo, anche intimo, condiviso con fatica insieme a Barbara. E così fu: oltre trenta giorni in mezzo a persone di settantuno paesi diversi del mondo (contati!) di tutti i continenti; a raccontarti ciò che eri o non eri stato sino a quel momento, a darti finalmente l’idea che la nostra esistenza ha sempre prospettive immensamente più grandi della vita che ogni giorno ci circonda.

Ciò che non sapevo era invece quel che sarebbe successo dopo.

Quando passi un mese ad alzarti ogni giorno per camminare oltre trenta chilometri non è semplice tornare alla vita di tutti i giorni. Torni, racconti la tua esperienza, ti rituffi nei ritmi della quotidianità ma rimane lì la domanda di come dare un minimo di continuità a quei giorni. Nulla di trascendentale, solo l’esigenza di tenere un filo con quell’esperienza.

Succede allora banalmente che ti capita tra le mani un volantino dove leggi che ci sono dei pazzi che si divertono a correre per quasi sessanta chilometri lungo la cresta più a nord dell’Altopiano di Asiago nei primi giorni di settembre. Questi corrono, tu cammini; in fondo, ti dici, è la stessa cosa, sempre di resistenza e di lunga durata si tratta.

Con la presunzione tipica di chi semplicemente ignora, penso: vuoi che con il mio passo, anche solo camminando, proprio io, non sia capace di concludere i 58 chilometri di questa Strafexpedition 2015 entro le quattordici ore di tempo massimo?. Come se le distese assolate della Meseta spagnola e i quasi tremila metri di dislivello verso Portule, Cima Dodici, Ortigara, Caldiera e ritorno ad Asiago potessero essere la stessa cosa.

Mi presento alla partenza, alle sei del mattino, senza aver mai percorso nemmeno i sessanta metri piani in vita mia. Osservo i concorrenti, molti si conoscono tra di loro, tutti si prendono in giro l’un l’altro prima dello start eccetto il sottoscritto, marziano in mezzo a loro. Improvviso i miei primi goffi seicento metri di corsa della mia vita, giusto per rendere onore alla partenza della gara ed al Silenzio ai caduti appena sentito, per poi dirmi che in fondo mancano solo cinquantasette chilometri e mezzo da fare a piedi prima del traguardo.

Salendo mi sembra perfino di poter competere, in fondo la salita mostra meno il divario tra chi sa cosa sta facendo e chi solo ora se ne rende conto. E’ fra Portule e Cima Dodici che nel giro di un’ora finisco per non scrutare più nessuno dietro di me, tra i sassi tutti corrono via all’impazzata, e rimane l’unica consolazione di non avere il servizio scopa della gara al mio fianco. Consolazione che svanisce a Piazzale Lozze al km 38 di gara, quando vengo fermato dai commissari perché fuori tempo massimo e mi ritrovo ad aspettare per mezzora gli unici tre concorrenti, due dei quali infortunati, rimasti dietro di me.

Sul piccolo furgone, di ritorno ad Asiago, sorridendo realizzavo quanto poco si possa improvvisare nello sport, senza alcuna preparazione. Mi ritiravo da una cosa più grande di me ma in quello stesso momento mi dicevo di cominciare a correre per davvero. Quel tanto che potesse servire ad arrivare entro il tempo massimo, questo era esattamente quel che mi proponevo. Del resto non avendo mai praticato dello sport, di più di questo non potevo certo dirmi.

Fu in realtà il giorno in cui presi la decisione di correre per sentieri. Fu l’inizio di un grande bagno di umiltà e così per tutti i mesi successivi cominciai a praticare uno sport che nemmeno conoscevo, a fare fiato, a formare un minimo il fisico per un’avventura inedita, essenzialmente selvaggia per la vita che fino a pochi mesi prima vivevo.

Oggi l’ultratrail è il mio mondo più vero, quei pazzi che osservavo ad Asiago il mio habitat; i sentieri, la ghiaia, la sabbia, il fango o la neve, il fondo sul quale sono in continuo movimento. Per chi come me ha conosciuto molto più del quarto d’ora di visibilità che spetterebbe a ciascuno, la corsa nella natura selvaggia è diventata fin da subito una grande lezione; ti insegna a fare i conti sempre e solo con te stesso, ad arrangiarti ed a resistere nella fatica, nel buio, nel sonno, sotto il diluvio o sotto il sole cocente; ma soprattutto ti insegna ad essere semplicemente uno dei tanti.

Uno dei tanti che con impegno e sacrificio può farcela. Uno dei tanti che gioisce anche semplicemente perché arriva. Senza sconti, come in fondo dovrebbe essere per tutti i traguardi della vita.

Tu, i tuoi passi e le tue sole possibilità.