#Vicenzaore16 – Cronache di normalità familiari in tempi non normali: adattarsi all’emergenza

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FASE è detto di qualcosa che ha limiti temporali più o meno definiti. Nel caso dei bambini, per esempio, la fase dei terrible two dicono inizi intorno ai due anni per finire intorno ai tre (ma non credeteci, inizia molto prima e non finisce più). Anche la pandemia, che è qualcosa di vivo e come tale nasce-cresce-decade-muore, non sfugge alla legge dello sviluppo e ci traghetta come involontari passeggeri attraverso le fasi, appunto, della sua esistenza.

L’allentamento delle misure di sicurezza del 4 maggio ci ha visti fare di nuovo cose di una innocenza imbarazzante con un furioso e ridicolo senso di trasgressione, un po’ come quelle vecchie che si tingono i capelli di viola e hanno, nemmeno troppo nascosto, lo sguardo da ragazzaccia; solo che noi, senza capelli viola ma al limite con un bicolore dovuto alla ricrescita, siamo semplicemente andati al supermercato di un altro comune, così, solo per ricordarsi cosa si provi.

Parallelamente, si è concluso un altro tormentone di questa emergenza mondiale: dal momento che ci è stato permesso di correre più o meno ovunque e a tutte le ore del giorno, com’era prevedibile ora a correre non ha più voglia di andarci nessuno, ché non c’è lo stesso gusto a fare le cose, se nessuno ti dice che non si può.

Dopo tre mesi la didattica online della primaria di mio figlio ha preso un ritmo costante ed efficace: la scuola tradizionale è ormai un ricordo tanto che il mio primo pensiero al mattino non è “che ore sono, siamo in ritardo” ma “che video-lezione c’è oggi” e “chissà che voto abbiamo preso nella ricerca di geografia”. Perché ormai anch’io sono in terza elementare, honoris causa.

Ieri, dopo cena, io e Giacomo abbiamo fatto un giro in centro: il primo dai primi giorni di marzo. La luce era magnifica, complice l’ora, la più bella, intorno alle nove: è ancora chiaro ma i colori hanno ceduto il passo ai contrasti, il cielo tra i palazzi, i profili lontani delle montagne. La differenza rispetto a prima continua a gridare attraverso il silenzio. Poca gente in un centro che, in questa stagione, sarebbe pieno di voci e movimento: ma rispetto a un mese fa, si respira, attraverso la mascherina, un’aria tiepida di fiducia. Abbiamo incrociato un gruppo di ragazzi, alcune coppie silenziose, una signora con il cane che ci ha detto “ho dimenticato a casa la mascherina” e mi sono accorta solo in quel momento che, il suo, è l’unico sorriso che ho visto.

L’adattamento, anch’esso in fasi diverse e conseguenti, ha fatto il suo corso: non ci sembra più strano stare lontani, stare a casa, uscire con guanti e maschera. Siamo animali che si adattano al cambiamento, come ci è richiesto dalla natura per sopravvivere ed evolvere. Sopravvivere, in gran parte, siamo sopravvissuti. Ma evoluti? Evoluzione significa miglioramento, avere qualcosa in più che prima non avevamo, come la posizione eretta nella preistoria. Che cosa abbiamo ora, che prima di tutto questo non avevamo? Non deve essere per forza qualcosa di eclatante, altrimenti più che evoluzione sarebbe rivoluzione: ma qualcosa di importante sicuramente sì. Per esempio, che cosa abbiamo voglia di fare, davvero, quando ci fermiamo. Oppure, facendo ancora un passo indietro, che fermarsi è non solo possibile ma necessario. Quando guardo i miei bambini che al mattino alle otto e mezza sono ancora in pigiama e non cambia niente se per cinque minuti vogliono giocare ancora, prima di vestirsi, o la sera guardano mezzora di cartoni in più. Quando, certi giorni, non è nemmeno necessario mettere la sveglia. Quando preparo il pranzo per tutti, tutti i giorni, senza fare il conto di chi c’è e non c’è tra scuola, lavoro e appuntamenti. Quando “mangiamo la pizza” vuol dire solo “faccio la pizza in casa” e ho imparato a farla come in pizzeria. Quando ascolto il mio compagno che insegna o che interroga, seguendo quello che sta spiegando mentre stendo o stiro o carico compiti su classroom o sedo risse tra fratelli: quando ne avrei avuto la possibilità in circostanze normali? Quando tutte le ore, tutto il tempo, è dedicato a noi, a stare bene, a far quadrare i conti e dover rinunciare al superfluo è solo un altro modo di dare ancora più valore a quello che resta.

E dico la verità, anche se lavorare è diventato uno slalom tra gli impegni di tutti gli altri e cinque minuti di silenzio non li ho nemmeno in bagno, anche se conciliare due figli, certi giorni quattro, con un’attività che fino a febbraio mi impegnava diverse ore al giorno, comporta un livello di stress che sfogo piantando piante (l’erba è cresciuta! Troppo!), ascoltando musica o più prosaicamente urlando come una pazza isterica tarantolata, ecco, anche se tutto questo è difficile, per me in questo momento è più difficile pensare che possa tornare tutto esattamente come prima.

E per fortuna è impossibile, almeno in questa casa, perché a cambiare sicuramente sono stata io, che ho riscoperto il piacere di scrivere, di studiare, di pensare ad altro oltre a quello che devo o che sono abituata a fare ed essere. Potrebbe essere un cambiamento temporaneo dettato dalle condizioni ambientali, una fase appunto, oppure evoluzione permanente: di certo si spande con conseguenze concentriche e spero molto positive. Anche se all’orizzonte scorgo già il profilo della fase centri estivi (sì o no? Quali? Quanto? “Non voglio andarci e non ci vado!”) e un po’, confesso, rimpiango la quarantena stretta.