“Nessuna premeditazione”: Impagnatiello avvelenò Giulia per farla abortire, non per ucciderla

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Il barman assassino

Era il dicembre 2022 quando Alessandro Impagnatiello aveva cominciato a fare ricerche online e a somministrare a Giulia Tramontano del veleno per topi, sciogliendolo nelle bevande che le offriva. Così facendo, stando agli elementi acquisiti nel corso delle indagini e del processo, intendeva riuscire nello scopo di farla abortire, per eliminare quel figlio che portava in grembo e che per lui era stato sempre e solo “un problema”.

Per i giudici della Corte d’Appello dunque, se l’intenzione era quella di procurare l’aborto, “non c’è stata premeditazione” nell’omicidio di Giulia Tramontano.

Sei mesi più tardi, Impagnatiello accoltellava a morte la giovane con 37 pugnalate e con tutto il carico della sua “furia rabbiosa”. Un gesto arrivato nel momento in cui l’uomo è stato smascherato dalle due donne con cui aveva relazioni parallele che portava avanti con una valanga di menzogne. Con queste motivazioni, la Corte d’Assise d’appello di Milano ha deciso di confermare la condanna all’ergastolo per l’ex barman che ammazzò con 37 coltellate la fidanzata incinta di sette mesi, nel pomeriggio di quel 27 maggio 2023, facendo ritrovare il corpo dopo quattro giorni. Ma dalla sentenza, come detto, viene esclusa l’aggravante della premeditazione nell’omicidio.

Reazione durissima dei familiari della vittima: “Vergogna. La chiamano legge ma si legge disgusto”, ha scritto la sorella Chiara, aggiungendo: “L’ha avvelenata per sei mesi. Ha cercato su internet ‘quanto veleno serve per uccidere una donna’. Poi l’ha uccisa. Per lo Stato, supremo legislatore, non è premeditazione”. Per la Corte d’Appello, però, “non vi sono” prove che “consentano di retrodatare il proposito” del 32enne di uccidere la fidanzata di 29 anni “rispetto al giorno” in cui l’ha accoltellata nella loro casa a Senago, nel Milanese. Averle fatto ingerire veleno per topi nei mesi precedenti, avrebbe avuto lo scopo di causare un aborto spontaneo e dare “una drastica ‘soluzione’”, scrivono i giudici, al figlio che la donna aspettava e che lui “identificava come il problema per la sua carriera e per la sua vita”. In definitiva, dunque, lo scopo dell’avvelenamento era “l’aborto del feto” e non “l’omicidio della madre“.

Nelle 59 pagine di motivazioni vengono invece confermate le altre due aggravanti della crudeltà (undici coltellate quando era ancora in vita, consapevole che stava morendo anche il figlio Thiago) e del vincolo della convivenza. Per la Corte, si legge , Impagnatiello ha ucciso la fidanzata “non già perché lei voleva lasciarlo, non già perché gli stava dando un figlio che, in fondo, non desiderava affatto, e neppure perché paventava un futuro di carte bollate, controversie giudiziarie per obblighi di mantenimento e affido congiunto”, ma “perché lei lo aveva sbugiardato dinnanzi a coloro che, ai suoi occhi, rappresentavano la proiezione pubblica di sé, la facciata ostensibile, infliggendogli quella che era per lui intollerabile umiliazione” su quel “palcoscenico”, che era il bar di quell’albergo di lusso in pieno centro a Milano. A questo punto, la Procura generale potrebbe ricorrere in Cassazione sulla premeditazione, mentre la difesa potrà insistere nel chiedere la cancellazione della crudeltà e il riconoscimento di attenuanti.