Spettacolando – “Sette a Tebe”: una tragedia che va ancora raccontata

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Al teatro Olimpico di Vicenza è andata n scena “Sette a Tebe”, per la regia di Gabriele Vacis.

Tre sold out dal 21 al 23 settembre e un meritatissimo trionfo per i dodici giovani interpreti che hanno inaugurato la 76esima stagione dei Classici all’Olimpico. Tratto dalla tragedia di Eschilo, il tema è più attuale che mai.

I figli di Edipo ereditano il trono dal padre da cui ricevono la precisa indicazione: un anno per uno con lo scettro in mano, cari figli miei. Eteocle, con la scusa che il fratello aveva sposato la figlia del re della città antagonista a Tebe,  rifiuta l’alternanza sul trono.

Il potere ha un gusto prelibato e logora solo chi non ce l’ha. Polinice, quindi, gli dichiara dunque guerra. Sette sono le porte dovrà difendere Eteocle e sette saranno gli attacchi che sferrerà Polinice con i suoi guerrieri.

Infinite invece sono le guerre che l’uomo ha cominciato. Per sete di giustizia, in nome della prosperità di un popolo, dell’amore per  una donna o di un qualche dio.

In continua “evoluzione” sono le armi che l’uomo ha inventato con la scusa di potersi difendere e di proteggere i propri cari: incalcolabili le volte che le ha usate per uccidere presunti nemici ed eclatanti innocenti.

Per ogni essere umano morto in guerra, c’è stata una donna a piangerlo,  madre o moglie che fosse. Spesso un bambino ad aspettarlo inutilmente. Ai giorni nostri, in uno mondo dove le differenze di genere provano a scomparire, le lacrime che scenderanno potranno essere quelle di uomini, ad attendere inutilmente le donne guerrigliere.

Quello che non cambia è il fascino irresistibile di un’arma che provoca morte: forse è vero che sono gli uomini a cercare il sangue, quel sangue che per le donne scandisce il ciclo della vita, e conoscono abbastanza bene da non cercalo ancora con ostinazione.  Se è vero che “Tutte le famiglie felici sono uguali e ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, si può dire che ogni pezzo di terra in pace è uguale, e che ogni pezzo di terra in guerra è infelice a modo suo.

Lo spettacolo chiude così:  “Sono Pietro, ho 23 anni, e non ho mai imbracciato un’arma in vita mia”. Dovremmo poterlo dire anche noi invece di trovare nuovi modi per fare la guerra: ci aspetta invece un mondo senza più veri confini, dove la morte potrà essere inodore, insapore e magari senza sangue. Quella morte invisibile, che stiamo già sperimentando.

Paolo Tedeschi