I trent’anni del Cristo sul Summano: ‘Io uno strumento, una mano mi ha guidato’

Ascolta l'audio
...caricamento in corso...

Quella mano alta, finalmente liberata dal dolore dei chiodi, che un po’ cerca l’eternità dopo una morte ormai vinta e lo sguardo che sembra invece abbozzare il più paterno dei sorrisi, sono ormai l’emblema del Summano.

È il Cristo che svetta nella cima, l’opera che in questi giorni compie trent’anni da quando, il 17 settembre 1993, dopo un non semplice trasporto in elicottero, quel corpo di metallo venne contrapposto alla croce nuda che saluta la pianura vicentina: un’installazione amata anche da chi non crede e vede nel volto misericordioso di quell’uomo fragile e potente al tempo stesso, tutta l’umanità che l’arte è in grado di esprimere. Sono in molti infatti, chi correndo e chi gustando passo passo la salita, quelli che raccontano di andarci anche per salutarlo: per taluni un momento di preghiera dove affidare a quel volto qualche peso rimasto in fondo al cuore, per altri una laica riverenza. Un appuntamento fisso divenuto irrinunciabile, che motiva solo in parte un affetto crescente verso una “presenza” divenuta parte integrante del territorio e della tradizione.

Concidenza nelle date, oltre al trentesimo, ricorrono anche i 100 anni da quando la croce cementizia su cui poggia il Cristo e che soppiantó quella divelta durante la Prima Guerra Mondiale, fu benedetta dal Vescovo Ferdinando Ridolfi che la affidò poi al mondo dei giovani con un’accorata esortazione.

Il suo autore, Giorgio Sperotto, di opere ne ha compiute tante altre nella sua vita, ma quella del Gesù sul Summano ancora lo emoziona fino a rompergli la voce: “Quando ebbi l’ardire di proporla – racconta lo scultore che ora vive a Marano Vicentino – trovai quasi inaspettatamente il consenso dell’allora parroco e della giunta comunale di Santorso. Fu solo in quel momento che, dopo l’entusiasmo iniziale, sentii tutto il peso della responsabilità e quasi pentito mi fiondai subito l’indomani su in vetta per capire come dovevo muovermi e cosa concretamente avrei dovuto fare. Se mi chiedessero ora di realizzarla, senz’altro non avrei più quella temerarietá e probabilmente mi tirerei indietro”.

7 quintali e mezzo di acciaio inossidabile e centinaia di ore di lavoro tra bozze grafiche e poi a tagliare e saldare con il prezioso supporto di Gildo Locallo: pezzo dopo pezzo tra dubbi, aspettative e quel senso di inquietudine e di sospensione di chi sa che tra le mani ha qualcosa di grande: “Molti si aspettavano una scultura lignea o di un metallo differente – spiega ancora Sperotto – ma io volevo qualcosa che emanasse luce e che in base alla posizione del sole, con quel bagliore quasi accecante, arrivasse a tutti i paesi dell’alto vicentino – e non solo – visibili da Summano”.

Un’opera mirabile nata dagli scarti, quasi a emulare proprio quel Cristo divenuto uomo: anche lui un reietto, ultimo tra gli ultimi, uno scarto appunto, tanto che la folla interpellata da Ponzio Pilato gli preferí Barabba confermando così la sua condanna a morte in una spirale di odio, invidia e indifferenza che sono i mali poi combattuti proprio dalla forza della croce: “Quando, anche pochi giorni fa, sono salito per accompagnare alcuni parenti – riferisce ancora Sperotto con gli occhi lucidi – ho guardato quel Cristo come non l’avessi fatto io. Mi sembra impossibile, davvero. Razionalmente so che le mie mani sono state lo strumento, ma sono certo che qualcosa di molto al di sopra mi ha guidato”.

Foto copertina Umberto Uderzo