L’inno alla vita di Maura, 19 anni dopo il dono di “Giò”

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Caro Giò, grazie di questa nostra meravigliosa avventura!

La notte che sei morto è successa una delle esperienze più incredibili della mia vita. Da quella notte “la più incredibile della mia vita” sento l’obbligo di condividere con il mondo ciò che conosco della tua storia: sei un giovane maschio di Pavia, morto il 9 gennaio 1999 alle prime luci dell’alba. Sei stato un donatore multiorgano, hai salvato la mia e altre vite.

Tutto il resto che so di te, sono le mie percezioni su di te. La privacy non concede di sapere null’altro. Ricordo ogni istante di quella notte: la telefonata – abitavo a Thiene allora – la corsa verso l’ospedale Niguarda, l’arrivo frenetico in Pronto Soccorso, gli accertamenti ulteriori, il trasferimento nella camera d’attesa del settore Trapianti, l’assunzione degli antirigetto in dosi altissime per azzerare tutte le difese immunitarie e prepararmi ad accoglierti, la presenza costante del personale medico per monitorare le reazioni del mio corpo all’assunzione massiccia dei farmaci preparatori che mi facevano passare dall’ipo all’ipertermia in un’alternanza di ibernazione seguita da temperature elevatissime in pochi attimi. Poi l’elicottero. L’ho sentito arrivare in lontananza e sostare sopra la mia testa –sicuramente sorvolò l’edificio del Settore Trapianti – per poi atterrare. Da Pavia a Milano, con la vita dentro. Avevo 39 anni, il cuore sopraffatto in quell’attimo quasi mi si fermò.

Poi è stato tutto un correre frenetico di camici, di carrelli, di disinfettanti, finché ti ho visto! Stavi dentro la borsa frigo per il trasporto di organi. Correva chi ti ha portato, ogni istante era preziosa vita in bilico. Ti hanno posato sulla barella, tra le mie gambe e siamo velocemente entrati insieme in Chirurgia dei Trapianti. I miei occhi si sono posati per pochi istanti su di te e sull’ora che l’enorme orologio segnava. “Chissà se è l’ultima cosa che vedrò prima di morire” pensai – consapevole che era un intervento ad altissimo rischio – precipitando nell’oblio dell’anestesia. Non fu l’ultima cosa che vidi. L’intervento durò nove ore e molto accadde durante.

Il risveglio fu un tempo immisurabile. La prima sensazione di fisicità è stata la percezione del lembo del lenzuolo che mi sfiorava le labbra… “Oddio sono viva!”, è stato il primo pensiero, ancora ad occhi chiusi, mentre il mio naso percepiva un odore di sterilità che mi parve fiorito. Il secondo, quasi immediato è stato questo nome famigliare, “Giò”, come se mi appartenesse o tu me l’avessi tramandato. Dicono che gli organi trapiantati abbiano una memoria che a volte alcuni riceventi percepiscono. Credo di essere tra costoro. Chissà se gli amici ti chiamavano così… Da allora per me sei Giò, il mio Giò, la mia vita.

Magari i tuoi famigliari non leggeranno mai questo post, ma io voglio scriverlo ugualmente per testimoniare l’amore infinito che ho per te. Grazie di quello che hai e che avete fatto a nome di tutti quelli che come me camminano su un filo di seta per rimanere attaccati alla vita. Ci avete dato, con la donazione degli organi, una speranza di tornare a vivere. Giò, tutti e tutte le Giò che hanno donato, non vi ha lasciati, ma continua a vivere in me e nelle altre persone a cui ha permesso di continuare questo cammino terreno, e che vi assicuro pregheranno per lui e per voi in ogni momento della loro vita, custodendo il dono da voi fatto come il bene più grande che abbiano mai avuto.

Il trapianto non è unidirezionale, è la salvezza di due organismi viventi: quello della persona trapiantata che lotta per la sua sopravvivenza, e quello dell’organo o degli organi –nel mio caso due, pancreas e rene – che lottano per la loro. Ed entrambi, da soli, non hanno speranza, mentre uniti si salvano. Il corpo che accoglie l’organo trapiantato è perciò come un grembo materno, come un utero, che accoglie un figlio a cui dà la vita, mentre la riceve da lui. L’esperienza del trapiantato è incredibilmente simile a quella della gravidanza. Il principale desiderio, la principale preoccupazione della persona trapiantata è di saper accogliere l’organo che ha ricevuto, e di salvarlo, curarlo, risanarlo. La persona trapiantata sa perfettamente e ricorderà sempre che quell’organo non è suo, che è parte di un’altra persona, e che lei ne è soltanto la custode, il grembo accogliente. Non dimenticherà mai chi, morendo, glielo ha lasciato. Anzi ne rivive in ogni istante l’agonia, la morte come fosse la propria. Perché da quella morte è scaturita la sua vita.

Dopo il trapianto combinato di rene/pancreas, ho sempre cercato di onorare questa straordinaria opportunità, aiutando e sostenendo chiunque ne avesse bisogno, dedicandomi al fundraising e promuovendo azioni sociali in molti ambiti diversi. Dopo il verbo “amare” il verbo “aiutare” è il più bello del mondo. Una bella poesia di Emily Dickinson dice: “Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano. Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido non avrò vissuto invano”.

Ecco come ho impiegato e sto impiegando questa mia seconda vita. Non solo per noi stessi stiamo nati. Quindi grazie Giò di avermi permesso di continuare il tuo percorso, grazie per questi nostri 19 anni che mi hanno permesso di aiutare tante persone, grazie alla tua famiglia che ha saputo, pur in un momento di così grande dolore, dare una testimonianza di grande sensibilità consentendo, attraverso il consenso alla donazione, a me e agli altri pazienti di essere trapiantati e di poter avere una possibilità di vita. Grazie anche alle decine di professionisti che hanno lavorato a questa donazione, a tutte le donazioni. Ai medici e tecnici della commissione di accertamento della morte, della rianimazione, delle sale operatorie, dei laboratori analisi, della radiologia, dei servizi di consulenza specialistica, del Coordinamento trapianti, al personale di supporto alla logistica, centralinisti ed addetti ai trasporti, che hanno lavorato perché la vita vincesse sulla morte. Grazie ai professionisti che ancora mi seguono e mi monitorano: ho un sogno lungo due vite da compiere con Giò, entrare nel Guinnes dei Primati. Ma non per egoismo o paura della morte che non temo, piuttosto per onorare il grande impegno di coloro che hanno reso possibile tutto questo. La sopravvivenza media nel trapianto combinato di rene/pancreas a distanza di cinque anni dall’intervento è del 60%. Sono già arrivata inaspettatamente a 19 anni, con la profonda consapevolezza che la mia vita – la vita di chiunque – è un miracolo da onorare in ogni suo istante. E non importa se nel frattempo mi sono ritrovata anche in carrozzina: la vita è un’avventura meravigliosa che vale sempre la pena vivere, anche sulle ruote!

Maura Fontana

Schio