Dall’attesa al dono: il messaggio del Vescovo Beniamino per il Natale in tempo di Covid

Un Bambino deposto in una mangiatoia

Mentre lo scorso anno vi ho chiesto il permesso di entrare idealmente nelle vostre case, per poterci scambiare le confidenze più belle nel contesto del Natale, quest’anno vorrei proporvi di recarci insieme in un’altra casa, anzi, per la precisione, in un altro contesto familiare, quello di Giuseppe e Maria, per metterci spiritualmente in sintonia con i loro sentimenti, quasi percependo i moti interiori del loro cuore. Vorrei accostarmi a questi giovani sposi del villaggio di Nazaret, chiedendo che siano loro a farci dono di alcune “parole” – da essi più vissute che pronunciate –, che ci introducano nel mistero della Natività, così come loro l’hanno accolto e sperimentato. Eccole: attesa, abbandono e consegna. Ci aiutino a intuire qualcosa di questo nostro tempo tormentato e a vivere nella fede questo Natale segnato dall’emergenza sanitaria.

L’attesa

Cercando di immaginare assieme a voi cosa abbiano provato Giuseppe e Maria, mentre stavano aspettando l’arrivo di un bimbo fuori del comune, penso che per loro l’attesa non sia stata facile. Attendere è senza dubbio una delle dimensioni più forti che segnano la nostra esistenza umana e che forse dovremmo un po’ reimparare.Quali saranno stati i pensieri, i sogni, le paure di questi sposi, che stavano per diventare i genitori del Messia così tanto desiderato? I dubbi di Giuseppe (cf. Mt 1,19), le perplessità di Maria (cf. Lc 1,29) e le difficoltà nel trovare alloggio (cf. Lc 2,7) dimostrano che non fu facile attendere questo bimbo. Anzi! A nascita avvenuta essi dovettero addirittura fuggire come stranieri in Egitto (cf. Mt 2,13-14). Si trattò, dunque, di un’attesa assai travagliata, nella quale tuttavia non emerge mai una nota di biasimo o lamentela da parte loro. Non si sono persi d’animo: i Vangeli dell’infanzia mostrano come essi, in queste vicende complicate, abbiano mantenuto un atteggiamento umile e fiducioso in Dio.

Anche noi siamo invitati a sintonizzarci con la dimensione dell’attesa, di cui il nostro stile di vita in qualche modo ci ha espropriato. Infatti, la tendenza odierna è quella di contrarre o eliminare i tempi dell’attesa: l’immediatezza con cui si vorrebbe risposta alle richieste, la fretta di voler riempire i tempi morti, l’impazienza di poter soddisfare un qualsiasi desiderio, la velocità imposta ai ritmi della comunicazione e del lavoro. Anche nella vita spirituale si è insinuato il dubbio che, se con la preghiera non si ottiene subito quel che si chiede, in fondo pregare è inutile. Penso, al contrario, alle diverse forme di attesa alle quali in qualche modo siamo stati “costretti” in questo tempo: l’agognata notifica dell’esito di un esame clinico (ad esempio il fatidico tampone: negativo o positivo?), la lunghezza interminabile di un’eventuale quarantena, la preoccupazione protratta a lungo per la propria salute o per la sorte di un familiare in ospedale, il tanto auspicato arrivo di questo o quel vaccino, salutato come un evento salvifico. Pure nel nostro ambiente ecclesiale: fino a quando bisognerà aspettare per riprendere le attività, la catechesi in presenza e i sacramenti dell’iniziazione cristiana?

Anche a noi è data la possibilità di vivere l’attesa non come tempo perso, sfuggevole, durante il quale si morde il freno per le attività cui eravamo abituati, ma come “gestazione”.  Cosa attendiamo realmente? Tutta l’enorme macchina economica che si attiva attorno al Natale va salvaguardata, certamente; ne va di molti posti di lavoro, ne va del prodotto italiano, ne va della salute psicologica delle nostre famiglie, ecc. Giustissimo! Ma cosa si attende dal Natale? Poniamocela realmente questa domanda: io, tu, noi in quanto credenti e membri di una comunità cristiana, cosa sto/stai/stiamo attendendo in questo Natale? Quale idee, quali progetti, quali aspirazioni stiamo pazientemente coltivando?

Questo periodo ci ha riconsegnato un altro modo di vivere il tempo, forse, ci aiuta a reimparare il significato dell’attesa e, soprattutto della preghiera: «È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore» (Lam 3,26). A fronte di alcune forme sguaiate e urlate di rivendicazioni di diverso tipo, credo che ci fa molto bene sintonizzarci con l’attesa silenziosa e fiduciosa di Giuseppe e Maria.

L’abbandono

Nei Vangeli dell’infanzia possiamo intuire pure un’altra dimensione assai significativa dell’esistenza, quella dell’«abbandono». Questo termine è ambivalente: può significare sia l’abbandono sereno di chi si consegna con fiducia nelle mani di un’altra persona, sia, purtroppo, la triste condizione di chi si sente abbandonato e dimenticato dagli altri. Partiamo da quest’ultima sfumatura.

È curioso l’assoluto silenzio nei racconti dell’infanzia circa la presenza di un qualche conoscente o parente che si sia fatto vicino a Giuseppe e Maria in questo istante della loro vita: nessuno. Nemmeno un cenno su un familiare o un amico pronti ad assistere questa coppia nel momento delicato del parto. In entrambi i racconti – di Matteo e di Luca – la Santa Famiglia agisce ignorata da tutti, si sposta e si muove completamente da sola. Sembra abbandonata, se così si può dire, al proprio destino.

Maria e Giuseppe, fidandosi di Dio, sperimentano l’abbandono più bello: quello del lasciarsi trasportare dall’iniziativa del Padre, al punto che, quando dopo il parto, avranno tra le braccia il bambino Gesù, potranno contemplare la fiducia in assoluto più alta: lo stesso Figlio di Dio che, nella condizione di bimbo, si abbandona nelle loro mani. In questo incrocio di abbandoni, essi hanno toccato il vertice della gioia.  Il Creatore che sprofonda addormentato tra le braccia delle sue creature (viene in mente Dante, mentre parla di Maria: «…il suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura»). Gesù si abbandona in braccio alla mamma e al papà, condividendo una delle esperienze primordiali di ogni essere umano. Il bisogno di braccia pronte ad accogliere, ad abbracciare, fra le quali abbandonarsi dolcemente, rimane iscritto per sempre in noi come un desiderio che ci accompagna per tutta la vita. Che sofferenza è stato ed è, in questo periodo, il divieto degli abbracci soprattutto con i propri cari più fragili o colpiti dalla malattia!

Quando, dopo i mesi della gravidanza, molto probabilmente attraversati da pensieri, sogni, preoccupazioni su questo bimbo, Maria ha potuto guardare il volto del piccino per la prima volta, ha visto che il Figlio di Dio le somigliava, aveva i suoi tratti somatici. Egli è realmente il Dio con noi, l’Emmanuele (cf. Mt 1,23). L’Altissimo è uno di noi; ci è vicino, prossimo, intimo e amico. La voce temibile di Dio, che attraverso i secoli ha parlato con potenza, adesso si esprime nel vagito e nel pianto di un bimbo. Quando dei genitori attendono un bambino, si sentono piccini, perché percepiscono di trovarsi davanti ad una grandezza che li supera e che li raggiunge come un dono; chissà cosa hanno potuto sperimentare Maria e Giuseppe davanti alla presenza dell’Infinito che entrava in maniera forte e tenera nelle loro vite.

Tornando, tuttavia, al significato negativo dell’abbandono, non posso non ricordare quanti, in questi ultimi mesi, hanno sofferto il distacco dalle persone care a causa del Covid. Con il ricovero di un familiare, di un parente, dal momento che non è stato possibile visitarli e accompagnarli, hanno avuto la terribile sensazione di averli abbandonati. La mancanza di un contatto, di una mano che tenesse loro compagnia, soprattutto nel momento del trapasso, è stata vissuta come un’esperienza dolorosissima. E mai sapremo come i malati si sono potuti sentire in quei momenti di solitudine: speriamo che abbiano potuto sperimentare un fiducioso abbandono nelle mani buone del personale sanitario, pronte a rassicurare anche solo con un tocco, con una carezza. Solo la fede in Dio, alla cui bontà abbiamo affidato i tanti defunti, potrà forse lenire col tempo questo dolore. Lui «non abbandona i suoi fedeli» (Sal 37,28).

Più volte, ultimamente, si è riflettuto sul piano psicologico e filosofico sul bisogno imprescindibile del contatto fisico. Nel periodo in cui – a differenza del passato ­– l’uomo può proiettarsi “lontano” (grazie al tele-scopio, al tele-fono, alla tele-visione, alla tele-matica), scrutando e sentendo ciò che da sempre era rimasto irraggiungibile, si affaccia in tutta la sua urgente immediatezza la dimensione della prossimità: di chi ci è vicino e di coloro ai quali vogliamo essere vicini. Per tale ragione in questo Santo Natale ci colpisce molto di più la vicinanza e la prossimità di Dio nel bambino di Betlemme. Gesù è il «Dio con noi» nelle vicende personali, fratello intimo nelle nostre storie liete e tribolate.

La consegna

Oltre all’immagine del bimbo abbandonato fra le braccia della Madre, che l’iconografia ha consegnato all’ammirazione in moltissime opere d’arte, ve n’è un’altra, non meno diffusa, del bimbo nella culla. L’evangelista ha talmente a cuore questa collocazione, che la ricorda ben tre volte: il bambino è «adagiato in una mangiatoia» (cf. Lc 2,7.12.16). Il contrasto è stridente ed è noto a tutti: il Figlio di Dio è collocato sulla greppia degli animali; il Re-messia è venuto al mondo non in un palazzo, ma in un ricovero per animali. La dimensione dell’umiliazione è evidente. Ciò che stupisce è che stranamente questa scena così umile è offerta ai pastori come una conferma della nascita del Salvatore: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12).

L’iconografia orientale – lo sappiamo – ama mettere sulla stessa linea cronologica i diversi eventi della vita di Gesù, perciò raffigura i momenti degli inizi alludendo a quelli della fine. Così le fasce diventano le bende della sepoltura, la greppia viene raffigurata come una tomba e la grotta di Betlemme in qualche modo anticipa l’antro roccioso del sepolcro. Questo lo si vede chiaramente nelle icone.

Tuttavia, vorrei tentare di offrirvi pure un’interpretazione squisitamente personale. Quello di Maria potrebbe sembrare un atto di offerta. Maria, adagiando Gesù nella mangiatoia, non lo trattiene per sé; certo, lo tiene per un po’ in braccio, ma poi lo depone. Questo mi ricorda l’episodio di Abramo che si prepara ad offrire il figlio: «Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna» (Gen 22,9). Maria colloca il Figlio su un posto dove viene messo il cibo per gli animali… Sicuramente è un gesto di custodia, ma è un’azione che ha pure il sapore di una consegna, simile al gesto con il quale, ponendo sulla tavola il pane e il vino, Gesù offrirà se stesso come cibo eucaristico da mangiare, coinvolgendo me, tu, noi tutti perché facciamo altrettanto. Infatti, ogni volta che celebro l’eucaristia, percepisco in qualche modo che la mia vita viene attratta da questa forza inarrestabile, che ci spinge ad offrire tutto noi stessi con Cristo.

Mi sembra che con questo gesto Maria ci dica che la fede, il rapporto con Dio, il suo legame personalissimo con Gesù lei li viva non come un’esperienza privata, da trattenere, ma come un dono da offrire, in forma di aperta condivisione. Se l’evangelista – lo ribadisco – ripete per tre volte che il bambino è deposto in una mangiatoia, attirando fortemente l’attenzione su tale azione, credo che il Natale debba partire da qui. La Chiesa tutta deve tornare qui. Da questo gesto di offerta e di dono.

In questo periodo assai duro per moltissime persone, per tante famiglie, riguardo alla salute, al lavoro, alla serenità psicologica ed economica, noi cristiani possiamo ripartire da qui. Da questo gesto di dono e di consegna. Sembra poco, ma in realtà è la nostra più grande risorsa… Gesù è venuto al mondo per offrirsi a noi e per darci la forza di fare altrettanto. Egli si dona continuamente nei sacramenti della chiesa, in particolare nell’Eucaristia, abilitando noi suoi discepoli a portare nel mondo la forza del suo amore, della sua vicinanza, della sua consolazione. Tale dinamismo di amore può fiorire anche e soprattutto nel contesto di distanziamento, di confinamento (lockdown) e di emergenza sanitaria in cui ci troviamo.

Nella solennità del Natale, la Chiesa tutta è convocata precisamente attorno a questa Parola: «Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Il suo neonato Signore è deposto nella greppia degli animali. Noi tutti siamo chiamati ad attenderlo, ad abbandonarci al dono e a consegnarlo a nostra volta. È un grandissimo dono da ricevere continuamente, ed è un dono che siamo chiamati a riconsegnare. Gesù è affidato a noi, consegnato nelle nostre mani, nella forma fragilissima di un neonato. Averne cura e avere cura della fragilità dei nostri fratelli e delle nostre sorelle è il compito che oggi viene deposto nelle nostre povere mani. Mi viene in mente, al riguardo, una leggenda:

In quella notte santa i pastori vennero alla grotta con doni diversi; chi con i frutti del proprio lavoro, chi con qualcosa di prezioso. Ma, mentre tutti erano assai generosi, un pastore non aveva proprio nulla da offrire: era poverissimo. Mentre tutti gareggiavano nel presentare i loro doni, lui si vergognava restandosene in disparte. A un certo punto, Giuseppe e Maria si trovarono in difficoltà nel ricevere tutti questi doni, e soprattutto Maria, che aveva le mani occupate nel reggere il Bambino. Allora, vedendo quel pastore con le mani vuote, gli chiese di avvicinarsi e gli mise tra le mani Gesù. Quel pastore, si rese conto di aver ricevuto quanto non meritava, di avere tra le mani il Dono più grande della storia. Guardò le sue mani povere, perennemente vuote: erano diventate la culla di Dio. Fu felice e, superando la vergogna, cominciò a mostrare agli altri il Bambino, perché non poteva tenere per sé il Dono dei doni.

  Concludo   

Che il Natale del Signore Gesù porti conforto e speranza a coloro che stanno vivendo la prova della malattia, alle famiglie in difficoltà, ai giovani che non riescono a trovare lavoro e a coloro che hanno perduto il lavoro, a chi sta vivendo un momento di smarrimento esistenziale.

Ringrazio tutti coloro, che nei diversi ambiti di responsabilità sociale, civile, ecclesiale, sanitaria ed economica si stanno prodigando per alleviare e per risolvere questa drammatica situazione che stiamo vivendo.

L’attesa, l’abbandono e la consegna siano, in questo Santo Natale, le parole umili ma concrete che riceviamo con gratitudine dall’esperienza di Maria e di Giuseppe, come antidoti efficaci a ogni forma di chiusura e di ripiegamento e come risorse sicure di rinascita personale e comunitaria.

Beniamino Pizziol

Vescovo di Vicenza

 

(Le Sante Messe presiedute dal Vescovo in Cattedrale giovedì 24 dicembre alle 19.30 e venerdì 25 dicembre alle 10.30 saranno trasmesse in streaming sul Canale YouTube Diocesi di Vicenza e in diretta radiofonica su Radio Oreb).