I 94 anni di “Bepi” Mambrelli, una vita da meccanico alla Moto Laverda: fu il primo assunto

Bepi Mambrelli qualche anno fa al Muse delle Moto Laverda

E’ stato il primo meccanico delle Moto Laverda a Breganze e il 28 novembre scorso ha raggiunto in buona salute il traguardo dei 94 anni. “Bepi” Giuseppe Mambrelli ha visto passare sotto i suoi occhi tutta la storia del mitico marchio di moto sportive e anche poco tempo fa si è emozionato visitando il Museo a loro dedicato in via Roma a Breganze. Nato e cresciuto a Sarcedo, è stato il secondo assunto dalla storia fabbrica ed è rimasto il primo meccanico, dato che poi il suo capo, Luciano Zen, se n’è andato altrove.

Moto Laverda, la gloriosa casa motociclistica fondata a Breganze nel 1949, lui l’ha vista nascere, crescere e poi lentamente dissolversi, lavorando a fianco di Francesco Laverda e del figlio Massimo, che di quell’impresa è stato l’anima, fino alla vendita nel 2000 al gruppo Aprilia e quindi il passaggio alla Piaggio nel 2004, fino alla definitiva chiusura nel 2006, nonostante un tentativo di salvataggio di un gruppo di imprenditori dell’Alto Vicentino.

Francesco, dottore in fisica e direttore tecnico della già importante azienda di famiglia che da quasi un secolo produceva macchine agricole, aveva iniziato a ritagliarsi del tempo dall’attività principale fondata coi fratelli: all’indomani della fine della guerra erano cresciute infatti le esigenze di spostamento. Nasceva così il mito delle Moto Laverda e Bepi Mambrelli c’era. Il lavoro di progettazione e sviluppo fu fatto da Francesco Laverda in coppia con Zen e con la manualità di Mambrelli. Ci vollero un paio di anni per riuscire a mettere in strada un prototipo funzionante: una motoleggera di bassa cilindrata e dimensioni contenute, con un telaio robusto in lamiera stampata e un motore a quattro tempi.

Sono stato assunto come apprendista nel 1948, quando hanno iniziato l’attività – ricorda Mambrelli andando col pensiero indietro nel tempo -. Avevo 16 anni e mezzo e  i primi due anni li abbiamo usati per far prove, prima di iniziare la produzione. Avevo fatto le scuole professionali a Thiene e sono entrato grazie a un amico di Francesco Laverda, al quale mio papà aveva chiesto di trovarmi un lavoro. Ho sempre lavorato lì: ero un ragazzino e non mi rendevo tanto conto di quello che facevamo. Lavoravo al tornio, poi son partito per la naja e quando son tornato, un anno dopo, erano ben avviati e ho iniziato di nuovo a lavorare per loro. Massimo mi voleva bene”. Il figlio infatti subentra al fondatore e imprime all’azienda un’accellerata. “A volte – ricorda ancora Mambrelli – Massimo il sabato mi diceva ‘Viene Beppino a darmi una mano sabato pomeriggio?’ e io andavo volentieri. Mi dava sempre del ‘lei'”.
Bepi Mambrelli ha lavorato sempre in officina fino alla pensione, nel 1985: 37 anni, tutta la sua vita lavorativa. Nel 1964 Massimo Laverda, imprime una svolta importante alla gamma del marchio di Breganze, decidendo di sviluppare moto di grossa cilindrata, con un notevole successo commerciale. Due anni dopo Mambrelli diventa caporeparto e successivamente inserisce in azienda anche i figli Gianfranco e Marino (quest’ultimo oggi dietro le quinte della rinomata Gelateria Emè, attività della famiglia a Sarcedo).

“Avevamo progettato una moto a quattro cilindri e non c’era nessuno al mondo che la faceva uguale”, racconta orgoglioso. Esemplari che partecipavano a corse mitiche di 24 ore, ad esempio in Francia e in Olanda. “Sai dove adesso c’è il quartier generale della Diesel? Ecco, lì c’era una pista di un chilometro. La prima fabbrica, invece, era in via Castelletto, in centro a Breganze. Quante volte ho spinto la moto insieme a Luciano Zen! Lui lavorava alle macchine agricole, era una brava persona, Francesco Laverda se l’è portato alle moto. Io poi son diventato responsabile del reparto e son arrivato ad avere 43 operai sotto di me. I primi prototipi li ho fatti tutti io, li conoscevo dalla A alla Z”.

Giuseppe Mambrelli in piazza a Breganze nel 2019, per i 70esimo anniversario della fondazione dell Moto Laverda

“Massimo Laverda? Era una cima – racconta ancora – e quando andava in ferie mi diceva: ‘Mambelli, mi raccomando, quando torno deve essere tutto a posto’. Facevamo 70 moto al giorno. Quella che mi ha dato più soddisfazione? La 750. Quando facevano le gare da 24 ore, la moto i piloti la consumavano. Una volta ho dovuto costruire un pezzo su misura, perché non si trovava più da nessuna parte in quanto la ditta che lo produceva aveva già chiuso”.

Dopo gli anni dei successi, arrivano però anche i momenti difficili, per le moto arancio. Succede quando Laverda si impunta con l’idea di costruire camion fuoristrada, un progetto che divora una montagna di soldi: “La Laverda non ha iniziato ad andar male perchè le moto non funzionavano, ma per un investimento sbagliato. Di quei fuoristrada infatti ne son stati fatti solo due modelli” spiega Bepi. “Dovevamo continuare con la Laverda 1000 con quattro cilindri, invece: era era una moto unica al mondo”. Così, quando inizia la cassa integrazione e lo lasciano a casa, Marino non ci sta e si licenzia, e lo stesso fa l’altro figlio. Giorni amari, nei quali l’umiliazione e la consapevolezza della propria esperienza vanno a braccetto: “Il capo officina non si è comportato bene con me: mi ha mandato in cassa integrazione ma dopo due mesi sono dovuto tornare in stabilimento cinque-sei volte per insegnare ai ragazzi del mio reparto come risolvere i problemi. Mi volevano bene”. Oggi, da nonno e bisnonno, anche quei momento difficili sono solo un ricordo che non dissolve l’orgoglio di essere stato parte di una storia finita, ma mitica.