Into the wild – Con Liverio tra i nostri sentieri perduti

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La Val dei Mariassi è una piccola vallècola sui settecento metri di quota a meno di un chilometro in linea d’aria da casa. Ci passano forse una decina di persone l’anno, quasi tutti cacciatori, più un incosciente di corsa, che sarei io, oggi il massimo frequentatore del posto. Ci andai la prima volta col mio papà, piccolo, senza sapere esattamente dov’ero. Ci tornai dopo i vent’anni, leggendo il nome della vallècola nella seconda edizione di colore blu di una guida che tenevo dentro lo zaino.

Avevo dieci anni quando di quella guida, “Sui sentieri della Val d’Astico”, mi ero ritrovato in casa la prima edizione. E’ uno dei libri che custodisco più gelosamente; sfondo verde e cartoncino volante nel mezzo per l’errata corrige del testo. La tenerezza di modalità di stampa che oggi non esistono più ma che sono il punto di partenza di un autore che da oltre trent’anni è il silente compagno di strada delle mie escursioni.

Liverio Carollo, “prof” in pensione di Centrale di Zugliano, ha steso tre edizioni di quel testo, oltre a quattro edizioni diverse di varie guide sulla Valposina e su Tonezza, perfino un testo sui sentieri minori di Laghi; ormai oltre duecentocinquanta, forse trecento,  sentieri dell’Alto Vicentino censiti e commentati. Molti di più se contiamo le note ai commenti, le varianti ai percorsi, i suggerimenti appena accennati. Eccolo qua il mio compagno di viaggio, la guida personale alla scoperta degli angoli più nascosti dell’Alto Vicentino.

Dai venti ai trent’anni non so quante domeniche ho passato a segnare con le crocette i sentieri percorsi delle sue guide, a leggere il testo non appena ci si fermava, a cercare ogni singolo particolare descritto. Lungo il percorso imparare a riconoscere il sito di una carbonara, i sassi a terra di un baito scomparso, cercare la pianella della Madonna, orchidea dei nostri monti, meravigliarsi per una fioritura esclusiva tra le mura rimaste di una malga abbandonata, incontrare uno dopo l’altro gli animali del bosco.

Tra i sentieri descritti, buona parte segnati dal Cai, molti invece tuttora senza segni bianchi e rossi. Per me sono sempre stati i migliori, i più stimolanti. Trovarne i bivi con la sola descrizione del testo, leggerne le indicazioni tra crinali, fontaneli, angoli umidi. Spesso non ritrovarsi, imparare a ritornare sulla giusta strada. A volte persino non trovarne la partenza, tornando due tre volte in cerca dei Sapoli e della Val d’Urle verso la Borcola, o del Pian della Luna sopra Caltrano.

Adoro perdermi nel bosco, ti insegna a ragionare, a trovarti da solo dei punti di riferimento. Credo Liverio, inconsapevolmente,  mi abbia insegnato sia a perdermi che a ritrovarmi. Perché i sentieri, i boschi, le nostre vallate abbandonate sono una miriade di segni, tracce, memorie, istantanee di vita andata e vissuta. E tra tutte queste indicazioni ti ritrovi, trovi il tuo habitat, cerchi la vita che è stata e che non è più.

Riprendo in mano ogni tanto la sua prima guida e rileggo una trentina di righe da lui scritte prima di descrivere i sentieri. Le ha titolate “Itinerario di un escursionista”; sono tutto il suo rapporto con i sentieri di casa nostra. Dal sentire avvincente il rapido salire verso la cima, fino alla lentezza di chi, in ogni sentiero, trova la storia povera delle nostre vallate. Il sentiero guida, compagno, documento, testimonianza. Lo scandire lento dei passi, tra le sofferenze di chi sui pendii, su fazzoletti di terra impossibili trovava da vivere.

Non te lo dice di certo, Liverio, ma abituandoti a viverli in questo modo i sentieri di casa nostra, impari ad immergerti totalmente dentro di essi. Trovi così la curiosità di immaginare cos’era la vita in una baita, in un covolo, in un riparo di fortuna, in un pianoro sperduto, in una contrada oggi deserta. Immagini grida, schiamazzi, vita dove oggi trovi il silenzio. Immagini le corse dei giochi dei bimbi allo Spieleck, gli amori nati tra una vallata e l’altra, l’intenso lavoro di muretto a secco o di una calcara, le donne e gli uomini scendere a valle per la spesa, persino il riposo di chi portava una bara alla Polsa del Morto.

Ci provi a pensare cosa potrà essere stata la Grande Guerra, nella curiosità di entrare in postazioni, gallerie, crinali, avamposti. Attraversi trincee, impari a riconoscere un sentiero militare, anche  a ragionare su come bisognava spostarsi nascosti dal nemico. Ma non è che ti trovi sulla frequentatissima Strada delle Gallerie, magari ci sei invece di fronte, sul Ponton del Pruste, nome che ai più nulla dice. Eppure è anch’esso un posto dove rifletti su come, dove scorre oggi il tuo tempo libero, si sono spezzate vite giovanissime.

Sono tutti luoghi vicinissimi a dove noi viviamo, ma remoti, dimenticati. Eppure sono passati pochi decenni da quando, pressoché tutte le persone di queste vallate vivevano così. Ripenso ai nomi degli oggetti della vita contadina o montanara. Alle sésole e alle sessole, al bìgolo ed alle ìdole. Rifletto su come sia cambiata in poco tempo la vita di queste vallate. Da una vita verticale ad una vita orizzontale, da realtà chiuse ciascuna verso i loro boschi a comunità in rete solo attraverso il loro fondovalle. Eppure lì a poche centinaia di metri dai fondovalle c’è un altro mondo, sconosciuto ai più giovani, ma reale, vero testimone di ciò che siamo stati. E lì a portata di mano, basta frequentarne i sentieri, scoprirli, viverli.

Me ne mancano una decina dei sentieri di Liverio, quasi tutti in quel di Posina. Il Brutto Biso mi aspetta da tempo. Proprio il Comune di Posina alcuni anni fa conferì a Liverio la cittadinanza onoraria e fu una delle tante belle iniziative di Andrea Cecchellero, io oggi il municipio nemmeno so più cos’è. Sono solo uno dei tanti che in venticinque anni a piedi, sulle guide di Liverio, ha imparato a conoscere, come meglio non si può, la sua terra.

Ah, dimenticavo, mica gliel’ho detto a Liverio di queste righe, nemmeno ci conosciamo!