Spettacolando – Cocciante all’Arena di Verona: un tuffo emozionante nel nostro passato

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All’Arena di Verona martedì scorso è arrivato Riccardo Cocciante in abito bianco, prendendo possesso del palco come fosse casa sua: sembrava un duca che sprigionava energia anche senza parlare. Una presenza scenica pazzesca, uguale a sempre, la stessa voce, la stessa rabbia.

Lo avevamo quasi dimenticato, fagocitato dalla “sua” epica Notre Dame de Paris, in tour da 27 anni. Ma Cocciante è un pezzo di vita e le sue parole hanno raccontato amore, amicizia e passione come pochi altri.

In un’epoca fucina di cantautori (che già abbiamo iniziato a rimpiangere), Cocciante non l’abbiamo messo nell’Olimpo degli dei, dove i vari De Andrè, Dalla e Battisti guardavano tutti dall’alto, inarrivabili ed eterni già da allora. Ma lo cantavamo in macchina a squarciagola andando a una festa con gli amici, o in casa, la domenica mattina, con i nostri genitori. Sussurravamo le sue canzoni quando eravamo soli in camera da letto, quando soffrivamo per amore senza sapere perché, e le sue parole dei suoi testi riuscivano a scavare dentro quel senso di ignoto, illuminando il buio. Scavavano e alimentavano il nostro sentire, dandoci la forza di tirarlo fuori, strofa dopo strofa: ci arrivava la sua rabbia come un secchio d’acqua gelata e ci sentivamo meno soli.

Perché quanto soffri per un amore che finisce, “senza una ragione né un motivo, quando  “cerchi a tutti i costi una ragione”, ecco,  poter urlare tra le lacrime e sapere che “non c’è mai una ragione perché un amore debba finire”, aiuta. Sì, cavolo se aiuta. Quando sei a pezzi hai solo voglia di ascoltare qualcuno che ti capisca, che sa, magari perché l’ha vissuto proprio come te. In questo Cocciante è stato l’amico di cui avevamo bisogno: vicino ma discreto, rabbioso e fermo, lucido ma conciliante.

Era già tutto previsto” ci sputa addosso la triste consapevolezza che non volevamo ammettere, nemmeno con gli amici più cari.  “Per un amico in più”, racconta quello a cui tendiamo, quel tesoro prezioso per il quale andremmo a piedi a Bologna. “Celeste nostalgia” quel sentimento per il quale temiamo di esser presi in giro e che ci teniamo dentro col rischio di logorarci. “Cervo a primavera” ci dice che la rinascita è possibile, “senza più niente da scordare, senza domande più da fare, con uno spazio da occupare”. E “Margherita”, beh, quanto era bella Margherita, dolce e vera: il sale e il vento, tutto insomma.

Cocciante ci ha dato la forza di usare parole semplici senza sentirci sciocchi. Ha sdoganato il nostro sentire, ci ha fatto compagnia facendoci sorridere, seppur amaramente: quando ti senti solo e stai da cani, un caldo abbraccio è l’unica medicina di cui hai bisogno.
A fargli compagnia sul palco è arrivato Ron e in duetto pianoforte (ovviamente Riccardo) e chitarra, hanno onorato Lucio Dalla ( quanto ci manca anche lui, maledizione), mentre prima Cocciante aveva omaggiato Rino Gaetano che aveva dato voce e gloria alla sua “A mano a mano”, in equo scambio di canzoni tra grandi maestri ( lui si era preso Aida). Poi è stato il turno di Michielin, che ha cantato “Zingara” in un modo strepitoso mentre le voci che lo accompagnano dal tour di Notre Dame si alternavano sul palco.

Una festa insomma, che non poteva che finire sulle note di “In bicicletta”, canzone semplice, gioiosa e leggera ma capace di entrarti dentro senza lasciarti mai. Cerchiamo successo e gloria, e con disperazione perseguiamo quell’idea di passione che crediamo illumini le nostre vite: nella realtà, passiamo per fallimenti e amori impossibili, senza il coraggio di ammettere nemmeno a noi stessi che per essere felici ci basterebbe “passeggiare in bicicletta, la domenica mattina, senza fretta. Accanto a te”.

Paolo Tedeschi

 

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