Un vicentino sulle orme di Marco Polo – #2 Lo yurt, questo sconosciuto

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Daniele Binaghi si affaccia dal suo yurt

Lo yurt, la caratteristica tenda rotondeggiante dei popoli nomadi asiatici, è una di quelle cose che sembrano essere indissolubilmente legate alle montagne di questo continente, un po’ come lo yak e lo yeti (sarà un caso che cominciano tutte con la lettera Y?). Come lo yak e lo yeti, del resto, è tendenzialmente grosso e peloso, anche se la lana da cui è protetto è stata pressata in vari strati fino a formare il feltro, materiale dal potere coibentante molto buono, e se ben trattato anche impermeabile; caratteristiche indispensabili per la copertura di una tenda che deve resistere non solo alle temperature molto basse della notte, ma anche al caldo delle giornate assolate ed alla pioggia, alla grandine, persino alla neve.

Smontato, pare uscito da una scatola dell’Ikea: una serie di pali ricurvi, un cerchio contenente una serie di pali più corti incrociati ad angolo retto, alcuni graticci di quelli incrociati e telescopici che si usano da noi per far crescere l’edera rampicante o la vite americana, dei rotoli di cannicciato, un po’ di cordini e nastri di tessuto resistente e, appunto, varie “lastre” di feltro, pronte da applicarsi sulla struttura. Manca solo la brugola, per il resto c’è tutto.

Io ed il mio gruppo abbiamo avuto l’opportunità di partecipare alla costruzione di uno di queste abitazioni, e devo dire che sapendo cosa fare (per fortuna, avevamo l’aiuto di esperti kirghizi) non ci vuole poi molto: si parte dal telaio della porta, al quale si connettono i graticciati fino a formare un cerchio più o meno perfetto (diciamo che Giotto sarebbe stato abbastanza fiero di noi); fatta la base, si innalza il cerchio fino al punto più alto, tenendolo in posizione con quattro pali fissati con cordino al graticcio; si prosegue poi aggiungendo via via gli altri pali, che si incastrano tutti in una serie di fori lungo il cerchio, ottenendo una specie di gabbia; si fissa intorno al graticcio il cannicciato, e infine sulla struttura si applicano gli strati di feltro, sempre fissati da corde e fasce di varia dimensione, lasciando per ultimo quello che va a coprire il cerchio. Et voilà, signore e signori: lo yurt è servito.

Uno o più tappeti, su cui non si può mai camminare con le scarpe indosso, e una stufetta a legna (o sterco di mucca che, opportunamente seccato, risulta avere un potere calorico niente male) con la canna fumaria che sbuca da un foro nel feltro soprastante, vanno a completare la costruzione. Il resto dipende dall’uso che si fa dello yurt: quelli in cui siamo stati noi sono ovviamente impiegati come camere da letto, e quindi a parte uno o più letti contengono delle cassapanche, tavolini con candele e fiammiferi per la notte buia, giacché solitamente il generatore elettrico del campo veniva acceso solo tra le 19 e le 22:30; la stufetta era sufficiente a scaldare l’ambiente, anche se la presenza di più coperte o piumini sul letto era ovviamente da tutti ben gradita.

In passato, i nomadi trasportavano i pezzi del loro yurt a cavallo, da un luogo all’altro, e in pochi minuti erano in grado di montarlo o smontarlo, pronti a ripartire per una nuova destinazione. Da qualche anno, però, in molti hanno scoperto il fascino di queste tende ad uso dei turisti che amano trascorrervi qualche notte; per questo, da aprile a settembre famiglie kirghize allestiscono accampamenti costituiti da svariati yurt, all’interno dei quali prendono forma camere da letto, sale da pranzo o cucine a seconda della bisogna. Due o tre bagni costruiti su fosse “a perdere”, qualche lavabo costituito da un serbatoio riempito d’acqua che alimenta il rubinetto di un lavandino incastonato in un grazioso mobiletto di legno, delle panchine sparse qua e là e una bella bandiera kirghiza ed il campo è pronto per ricevere gli ospiti.
Ma lo yurt sta diventando una moda non solo in questi paesi: se qui viene usato anche per celebrare cerimonie particolari, come matrimoni e funerali, sono sempre di più gli stranieri che se ne innamorano e decidono di acquistarne uno o più per istallarli in giardino, per campeggi di lunga durata o, addirittura, per viverci. Nascono così come funghi ditte specializzare nella produzione di yurt, che vengono poi spediti completi delle istruzioni di montaggio. Quelle locali, qui in Kirghizistan, li realizzano per circa 4000 euri, di buona fattura e molto resistenti; in Europa e negli Stati Uniti li si trova a 6000-7000 euri, e ovviamente ogni ditta afferma che i propri sono i migliori sul mercato. Per chi invece vuole provare l’ebbrezza di alloggiare in uno yurt senza svenarsi ci sono quelli di produzione cinese, spesso costruiti in alluminio e materiali plastici: non il meglio per qualcosa che possa resistere negli anni alle intemperie, ma per un matrimonio o un festival possono andare più che bene.

Daniele Binaghi

(segui i suoi viaggi su pecorelettriche.it)