Di madre in figlia: ditta in fallimento “regala” risorse. La Finanza chiede 800 mila euro

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La Guardia di Finanza in Tribunale a Vicenza

Una madre e la sua figlia adulta, entrambe vicentine di Sarego, risultano implicate in una condotta criminosa che per la Guardia di Finanza provinciale rivela i connotati della bancarotta fraudolenta. Il settore economico di riferimento è quello della lavorazione conciaria delle pelli animali, e riguarda un’azienda sotto procedura fallimentare.

Secondo le indagini delle Fiamme Gialle la “I.C.S. 2 srl” avrebbe distratto dei fondi in favore di una nuova ditta di recente costituzione – denominata Mastrotto Leather -, condotta da un familiare – la figlia sopracitata – e con modalità non consentite, configurando anche il reato di autoriclaggio.

La sigla dell’attività produttiva in regime di fallimento sta per Industria Conceria Sarego srl e la titolare – la 58enne E.N. come iniziali – risulta indagata per tre capi di reato: bancarotta fraudolenta patrimoniale, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e il già citato autoriciclaggio. Secondo i finanzieri provinciali vicentini le operazioni poste in essere dalla donna miravano a “spostare” le sostanze residue in favore della ditta aperta formalmente dalla figlia 34enne – tra l’altro convivente, sempre a Sarego -, trattenendole indirettamente nella propria disponibilità e, soprattutto, sottraendole di fatto a creditori e all’erario.

Così facendo l’attività di imprenditrice di fatto sarebbe poi proseguita nella nuova società, mentre quella precedentemente attiva entrava in liquidazione. Secondo gli operatori della Guardia di Finanza, in sintesi, sarebbe stata utilizzata la famigliare come “testa di legno” a cui intestare solo per la forma l’attività conciaria. A tutela delle varie parti potenzialmente danneggiate dalla condotta illecita denunciata i finanzieri berici hanno chiesto in Procura il sequestro di 529 mila euro (ai fini di confisca) e di altri 319 mila per equivalente.

Si tratta in parte di finanziamenti ricevuti senza alcuna garanzia in cambio dall’azienda in fase di chiusura a quella “in avviamento”, oltre al valore di più rimanenze di magazzino in pratica regalate, e infine un contratto di affitto di un ramo d’azienda considerato a canone irrisorio, e quindi considerato un’ulteriore prova dell’illecito. Un’ultima considerazione da parte degli investigatori indica che l’amministratrice della ditta fallita “mediante il contratto abbia drenato tutti gli asset commerciali, compresi i legami con fornitori, clienti e lavoratori dipendenti già in seno alla fallita, precludendo ogni possibilità di ristrutturazione dello stato di dissesto economico-patrimoniale“. Il debito verso lo Stato italiano sfiorerebbe i 400 mila euro.