Un vicentino sulle orme di Marco Polo – #5 L’ultimo, povero Khan

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Colori montani verso la valle di Fergana, Kirghizistan (Foto Daniele Binaghi)

Lasciamo la strana Cina di Kashgar per ritornare in Kirghizistan lungo un’altra rotta, e lo facciamo con difficoltà: i superorganizzati cinesi sembrano infatti sbattersene della presenza di diversi turisti negli uffici della loro frontiera e ci fanno attendere per un’oretta prima di sedersi ai loro posti ed esaminare i nostri passaporti; come risultato, dobbiamo poi fare le corse per arrivare all’ultimo posto di controllo in tempo prima della (loro) pausa pranzo… ce la facciamo per 3 minuti esatti, e riusciamo a rientrare in territorio Kirghizo, dove ci attendono la giovane guida Aziza e l’autista Bazarbai, il nome più bizzarro che abbia sentito fino ad ora.
Con loro arriviamo a Sary Tash, villaggio accoccolato tra le montagne, dove la vita ha un ritmo completamente diverso da quello che ci siamo appena lasciati alle spalle. Noi ci adattiamo ben volentieri, e camminiamo con curiosità per le due uniche strade sulle quali sembrano passare solo camioncini traboccanti di fieno, incontrando bambini ed adulti che ci salutano cordialmente e si offrono spontaneamente agli obiettivi delle nostre macchine fotografiche, quasi fossimo grandi artisti venuti lì apposta per ritrarli; in lontananza, dall’alto dei suoi 7134 metri, il Picco Lenin ci osserva benevolo. La sera, nella prima di una serie di case private che ci ospiteranno nei prossimi giorni di questo lungo viaggio, trascorriamo il dopocena a giocare ad indovinare personaggi storici (e non), mentre la vodka passa di mano in mano riempiendo dei minuscoli bicchierini che noi ci guardiamo bene dal lanciare contro il muro, ché qui la notte fa freddo e non sarebbe intelligente farsi buttare fuori dalla padrona di casa.

Da Sary Tash raggiungiamo, lungo una strada che abbaglia per la bellezza delle colorate pareti montuose che la circondano, la valle di Fergana e la città di Osh, forse antica di 3000 anni. Osh è caotica, viva, bassa e molto estesa, e l’unica caratteristica che la contraddistingue davvero è il grande massiccio roccioso del Trono di Solimano, luogo di pellegrinaggio musulmano per secoli, da quando forse il profeta Maometto vi sostò per pregare. Lo visitiamo, cominciando dal bizzarro museo costruito all’interno della montagna, a dire il vero più interessante per la sua assurda architettura che per il suo contenuto; così la pensano anche decine di visitatori locali, intenti a farsi selfie mentre bellamente ignorano gli onnipresenti cartelli che vietano le fotografie (d’altronde, a Kashgar la gente fumava tranquillamente davanti ai cartelli che lo vietavano, quindi chi sono i Kirghizi per essere da meno?!), e che appena ci vedono ci chiedono di partecipare, e per una volta è buffo e salutare passare dall’altra parte dell’obiettivo. Ci inerpichiamo poi lungo una lunga scalinata verso la Casa di Babur, la ricostruzione di una piccola stanza per preghiere nel punto in cui il giovane Zahiruddin Babur ne edificò una simile nel 1497, almeno stando ad un’altra leggenda (Babur diverrà poi famoso per essere il progenitore della dinastia Mogul, quella dell’India per intendersi).
Due giorni, ed è già tempo di attraversare un altro confine, questa volta per entrare in Uzbekistan, sempre mantenendoci all’interno della valle Fergana. Temiamo lungaggini infinite, perché gli uzbechi sono noti per essere i precisini locali e per la loro ossessione per i controlli, ma in realtà a parte una coda di un’ora sotto il sole per uscire dal territorio kirghizo riusciamo poi a cavarcela in fretta mostrando i nostri passaporti ed il visto che abbiamo già ottenuto settimane prima: quelle svariate decine di euro uscite dalle nostre tasche per un pezzo di carta adesivo attaccato sui nostri documenti valgono ora quanto il salvacondotto dorato che Marco Polo aveva ottenuto dal grande Khan Kubilai, e ci permettono di saltare le file senza che nessuno dei locali protesti (anzi, sono loro stessi ad indicarci la via, felici di farlo e ancor più quando scoprono che sono italiano e che posso cantare pezzi di canzoni di Adriano Celentano e Toto Cutugno, sempiterni eroi locali). Così, accompagnati da un improvvisato coro sulle note di “Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro per noi…”, entriamo in territorio uzbeco ed incontriamo Dinora, la nostra guida per le prossime poco più che 24 ore. Sposata, con due bambini, è una forza della natura, e sembra un po’ fuori posto in queste zone che sono forse le più conservatrici del paese – noi, per non creare problemi, ci siamo vestiti in modo adeguato, senza magliette dalle maniche troppo corte o pantaloni sopra il ginocchio; lei invece in maglietta aderente e modi spicci. Subito dopo un pranzo consumato in un fast food locale, nel quale in realtà le insalate e le zuppe che ci portano sono deliziose ed il conto è ridicolmente basso (circa 11 euri per 10 persone, incluse delle bibite), raggiungiamo il paese di Margilon, dove visitiamo la famosa fabbrica di prodotti di seta Yodgorlik. Dinora come guida è molto brava, ha lavorato nel settore e quindi ne conosce tutti i segreti, e ci conduce in ogni reparto della fabbrica insegnandoci ogni singolo passaggio della produzione della seta, da quando i bozzoli vengono immersi in acqua calda per smollare i fili che vengono poi uniti per crearne uno continuo e resistente, a quando persone di grande esperienza colorano i filati con un pennellino immerso in colori naturali (7 anni per imparare, ci vogliono!), ai rumorosi telai meccanizzati che grazie ai loro ingranaggi ben oliati producono tessuti simili a quelli che hanno dato il nome a queste vie che stiamo percorrendo.
Arriviamo a Kokand che ormai è tardo pomeriggio, e quindi ci riposiamo e ceniamo in un semplice ma buon ristorantino dove fanno, tra l’altro, le migliori patatine fritte che sperimenteremo durante questo lungo viaggio; poi, tutti a far due passi per i viali semideserti, che ti viene da chiederti dove sono andati a finire tutti, fino al grande palazzo di Khudayar Khan. Grande, sì: perché Sayid Muhammad Khudayar, che regnò sul Canato di Kokand ininterrottamente dal 1845 al 1875, decise che non potevano bastargli meno di 16000 (già: sedicimila! Versailles è grande quattro volte tanto, ma Versailles è Versailles…) metri quadri, distribuiti in 119 stanze e 7 cortili interni. Del resto, poverino, a parte la corte aveva pure l’harem da sistemare, e tra mogli e concubine arrivava tranquillamente alla cinquantina. Non se la godette molto, la “Perla dell’Asia”: un paio d’anni dopo averlo completato, Sayid fu cacciato dalla sua stessa popolazione, stufa delle sue crudeltà, o forse solo aizzata dai russi, pronti ad intervenire in loro aiuto. Ma bello è bello, non c’è dubbio. E, se alla sera ce lo godiamo illuminato da strani fari colorati, al mattino dopo ci apre i suoi grandi portoni e si fa visitare tutto, e Dinora di nuovo riesce a renderlo vivo.
Poi è già tempo di andare, e attraversare un’altra frontiera, verso un altro “stan”.

 

Daniele Binaghi (pecorelettriche.it)

 

Le altre puntate:

#1 Da Venezia al Kirghizistan

#2 Lo yurt, questo sconosciuto

#3 Dove riposavano le carovane

#4 La vecchia nuova Kashgar