Dentro all’Abisso del Monte Novegno, le spettacolari immagini dello Speleo-Team

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E’ un eccezionale documento, questo dello Speleo-Team, un gruppo di amici con un’unica passione: fare foto e video in grotta divertendosi. E’ il racconto del backstage di una missione, effettuata nel settembre 2016, per documentare fotograficamente l’Abisso del Monte Novegno, che con i suoi due pozzi da oltre 200 metri ha messo a dura prova tutti i partecipanti al progetto. Grazie alla logistica curata dal Gruppo Speleo di Schio le due squadre fotografiche, capitanate da Sandro Sedran (foto standard) e Lorenzo Rossato (foto a 360°), si sono potute alternare nell’abisso.
Riprese Video: Flavio Cappellotto, Marco De Pretto, Sandro Sedran. Montaggio: Marco De Pretto, Umberto Uderzo. Ecco il racconto dell’impresa.

 

E Abisso è stato, quello con la “A” maiuscola, 8 ore costantemente appesi in corda per documentare il più profondo pozzo del Veneto, il “Macchu Picchu”: 220 metri. Gli amici del Gruppo Grotte Schio CAI ce lo hanno armato appositamente e, dopo un tentativo fallito a causa di un diluvio imprevisto, finalmente abbiamo potuto dedicargli le nostre attenzioni.

Ci troviamo presto: alle 8 siamo già in prossimità della zona sommitale del Monte Novegno a quota 1450. So benissimo che ci vorrà molto tempo e non mi piace uscire troppo tardi alla sera. Siamo un bel squadrone di 11 persone, ma alla fine scenderanno solo i cinque della squadra fotografica. L’avvicinamento è idilliaco nella prima parte: malghe, pascoli e spazi aperti ci cullano fino al nostro ingresso nel bosco dove ci attende una ripidissima ed impegnativa discesa fino all’ingresso della grotta.

Dei quasi 500 metri di sviluppo, solo 9 metri sono orizzontali! 3 metri all’ingresso, a cui seguono i P50 e P7, e 6 metri di meandro prima del P220. Percorrendo il meandro, un po’ alla volta il pavimento si allontana fino a quando non ti trovi quasi al centro della sommità dell’abisso. La prima foto la faccio un frazionamento più sotto, da dove ho una visuale più ampia sul primo terzo di pozzo. Un cambio di pendenza, 70 metri più sotto, impedisce di vedere oltre. Il pozzo è enorme: qui il diametro parte da 8 metri ed aumenta man mano che si scende. Provo varie modalità di luce: diretta, contro, mista.

Mentre scattiamo arriva il resto del gruppo. tra loro c’era chi doveva uscire presto e quindi quello era il suo punto di arrivo; gli altri, con poca esperienza, avrebbero dovuto iniziare a scendere il Macchu Picchu fino alla cengia, ma, dopo averlo visto tutto illuminato, si sono fatti passare la voglia di scendere!

La squadra fotografica continua la discesa e si posiziona nei pressi della cengia che divide il fondo cieco dal fondo effettivo del pozzo. Lo scatto è possibile solo un frazionamento prima, 20-30 metri più alto, dato che anche qui un cambio di pendenza del pozzo impediva la visuale da più alti.

Flavio ha armato anche il pozzo cieco e vi è sceso per agevolare la mia foto. Questa volta mi sono attrezzato bene per fissare il cavalletto al frazionamento in modo che resti immobile e teso anche sotto il peso della reflex. Cordino di sicura sulla fotocamera e, ahimè, occhiali per vedere meglio da vicino: l’età avanza anche per me ed ormai il display lo vedo tutto sfocato e non riesco più a regolare i settaggi correttamente. Ho optato per l’ottica Tamron 28-300 per cercare di coprire maggiore distanza rispetto all’uso del mio solito grandangolo Canon 17-40, anche se credo che la qualità degli scatti ne abbia risentito.

La comunicazione tra di noi avviene tramite radio: impossibile fare altrimenti viste le distanze ed il rimbombo della voce sulle pareti. Dalla cengia fotografo gli ultimi 80 metri del Macchu Picchu e poi tutti sul fondo. Flavio, supportato da Max, si infila nella fessura ed inizia a scendere il Pozzo Tempesta, un bestione da 203m perfettamente verticale. Vogliono iniziare ad armare la calata per andare a vedere, nelle prossime uscite, un finestrone che si trova dalla parte opposta e che non è mai stato visto da nessuno.

Quando è pronto mi chiama e salgo pure io sulla sommità del pozzo. Purtroppo Flavio e Max sono fuori dalla mia visuale perchè incassati dentro una fessura laterale del pozzo. Chiedo a Max se può spostarsi lateralmente affinchè riesca a vederlo: pendola alla sua sinistra, ma ad un certo punto sento un “Boia!” e Max parte lateralmente come un missile facendo cadere materiale sul sottostante Flavio. Gli è rimasto un “paracarro” in mano, un macigno di una decina di chili che se ne libera lanciandolo verso il centro del pozzo dove cade con numerosi boati. Anche dal mio frazionamento mi rendo conto come la roccia sia più fratturata, mista a fango e con croste calcitiche sopra; quando tocchi si rompe sempre qualcosa e precipita verso il basso. Ecco perchè lo hanno chiamato Tempesta! Comunque, anche con solo due luci, riusciamo a documentare l’aspetto di almeno la prima parte di questo pozzo. In ogni caso, 203 metri dritti dritti, in fotografia non sarebbe stato possibile farli rendere tutti.

Nel frattempo Massimiliano è risalito alla cengia ed io lo raggiungo dopo un po’. Gli altri tardano ed io mi appisolo a cavalcioni della cengia mentre Massimiliano sale di tre frazionamenti. Attendo che passi Massimo, oggi detto “Titty” per via della tuta gialla e perchè c’è anche l’altro Max (Max, Max e Massi: immaginate il casino nel dare gli ordini via radio?).

Dopo che è passato anche Max, mi accorgo che Massi e “Titty” sono fuori dalla mia visuale e scatto un’altra foto. Faccio passare pure Flavio e saliamo tutti fino a schierarci sull’ultimo terzo dove vedo tutti i compagni ed il canale di volta della partenza del pozzo dove è posizionato Massi.

Purtroppo l’estrema verticalità della pozzo non viene resa bene dalla fotografia: se lo guardi con la testa girata, senza sapere cos’è, potresti dire che si tratta di un tunnel orizzontale.

Nell’attesa del nostro turno fotografo pure il P50 e poi ci ricompattiamo fuori davanti l’ingresso.

Otto ore di permanenza di cui almeno due occupate nel fare foto.
La risalita nel bosco è veramente massacrante e ti toglie le ultime forze rimaste, oltre al fiato, naturalmente, ma la soddisfazione è tanta e la fatica passa in secondo piano.
Conclusione con bruschetta e birra alla Casa del Popolo Marano, dove ci hanno raggiunto anche tutti gli altri, con Alice cameriera d’eccezione.

Grazie a Flavio ed a tutti gli speleologi scledensi che hanno contribuito nel rendere possibile questo lavoro.

Sandro Sedran