Corlianò, uno “scledense” alla guida del sistema veneto dei trapianti

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Il dottor Corlianò durante un incontro

In una regione come il Veneto che eccelle a livello nazionale per il numero di trapianti – il centro regionale di Padova è terzo, dopo Milano e Torino, ed è al terzo posto anche come donazioni, 196 nel 2017 – a coprire il ruolo più alto della struttura regionale è stato chiamato un medico “scledense”. Pantaleo Corlianò, pugliese di origine e scledense di adozione, dal 2016 è direttore operativo del centro regionale trapianti. Prima di questo incarico, dal 2008, è stato primario nel reparto Terapia Antalgica nel polo sanitario altovicentino, dove si è speso per anni anche per “migliorare l’organizzazione delle donazioni di organi e tessuti in ospedale, diffondendo la cultura del dono tra la popolazione altovicentina”.

Lo specialista si è formato a Padova in Terapia Intensiva e per tre anni, negli anni ’80, ha lavorato all’ospedale Giustinianeo in Rianimazione, nel momento in cui si iniziavano ad applicare gli accertamenti di morte con criteri neurologici che permisero, all’epoca, i primi trapianti a Padova e in Italia. Corlianò vive tutt’ora a Schio con la famiglia.

Dottor Corlianò, perché ha scelto di andare al Centro trapianti regionale?

“Sono stato chiamato. Cercavano qualcuno che coprisse il ruolo di direttore della struttura operativa del centro regionale. Qui, oltre a conoscere le diverse organizzazioni dei processi di donazione esistenti nel Veneto, posso dare il mio contributo alle decisioni strategiche regionali nel campo della medicina delle donazioni e dei trapianti”.

Perché il centro di Padova viene ritenuto un’eccellenza?

“Per l’elevata competenza dei professionisti che ne fanno parte: essa si concretizza nelle attività di screening, nell’identificazione, studio e valutazione dell’idoneità dei potenziali donatori, ma anche nel campo della chirurgia dei trapianti. Poi, non ultima per importanza, c’è la grande empatia dei professionisti del sistema regionale trapianti nel rapporto con i familiari del potenziale donatore, nel momento del lutto e della perdita”.

Come si svolge una sua giornata-tipo?

“Arrivo in ufficio alle 9 e rimango fino alle 18, con disponibilità telefonica 24 ore su 24 e nei giorni festivi. La mia struttura operativa supporta il lavoro dei sanitari in tutti gli ospedali del Veneto nei processi di donazione degli organi: analizziamo periodicamente i numeri di attività di donazione e programmiamo audit presso le varie aziende sanitarie; progettiamo corsi di formazione per gli operatori del sistema trapianti del Veneto; partecipiamo ai progetti di sensibilizzazione della popolazione per diffondere la cultura del dono, come la campagna ‘Una scelta in Comune’, in cui abbiamo formato 971 dipendenti comunali di 450 Comuni veneti”.

Quali sono le sfide maggiori oggi, nei trapianti?

“Sono molte. Anzitutto c’è l’esigenza di incentivare e diffondere il trapianto da vivente (per il rene soprattutto) e prolungare la sopravvivenza dei pazienti in lista d’attesa. Bisogna migliorare ancora l’organizzazione del sistema regionale trapianti e trasformare la medicina delle donazioni da medicina di nicchia, che interessa pochi sanitari, a obiettivo del servizio sanitario regionale; dobbiamo continuare nella sensibilizzazione e diffusione della cultura della donazione, sia tra i professionisti sanitari che tra la popolazione”.

Ha un ricordo particolare e bello, riguardo al suo lavoro?

“Ne ho due. Una volta ho letto lo scritto di una persona deceduta, anziana e sola. Non si fidava di nessuno e aveva lasciato uno scritto di proprio pugno alla sorella che diceva: ‘Se proprio sono morta fai donare pure tutto quello che si può del mio corpo, purché possa essere di aiuto a qualcuno’. Mi ha suscitato una grandissima tenerezza, ma è stato anche un grande messaggio per tutti noi che non siamo riusciti a comunicarle notizie sicure e tranquillizzanti sulla donazione degli organi e tessuti. Un altro ricordo che mi è rimasto impresso è stata la vista di un polmone che veniva perfuso e respirava (espandendosi e ritraendosi) al di fuori di un corpo umano, ricucito da una lesione per essere poi trapiantato con ottimi risultati”.

Su cosa si gioca il futuro dei trapianti?

“Il futuro dei trapianti non si può indovinare. Potrebbe essere rendere più sicuri certi trapianti da vivente, come il fegato e il polmone, o anche riuscire a rendere ottimali organi marginali, che funzionano poco, curandoli fuori dal corpo umano, collegati ad una macchina di perfusione. O ancora migliorare le terapie antirigetto, per aumentare la sopravvivenza dopo il trapianto, e diffondere la donazione a cuore fermo”.

Perché il Centro regionale funzioni bene serve più organizzazione o passione?

“Serve un’ottima organizzazione supportata dalle più moderne tecnologie da una parte e tanta, ma tanta passione. Da parte di persone che devono avere particolare sensibilità verso chi soffre: si tratta infatti di persone che ti possono scaricare addosso anche tutta la loro rabbia e il loro dolore, per questo motivo bisogna avere la forza di ascoltare ed accogliere, prendendosi carico delle loro sofferenze. Il centro regionale deve mantenere vive queste sensibilità negli operatori e dar loro le motivazioni perché non vadano in burnout, cioè sotto stress”.