Il caro energia potrebbe costare oltre 96mila posti di lavoro. A rischio più di 7mila imprese

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Nel periodo post pandemico le aziende vicentine avevano ripreso a correre, le commesse piovevano raggiungendo livelli che facevano ben sperare e gli imprenditori avevano l’ottimismo per tornare ad investire sia sulle proprie imprese che sulle risorse umane. Purtroppo, però, da inizio anno la mannaia delle bollette di energia elettrica e gas grava pesantemente sulla produzione tanto da preoccupare anche chi ha gli ordini nel cassetto con l’alto rischio di non riuscire a evadere le richieste e lasciare a secco i propri clienti.

La situazione paradossale minacciata dai rincari è sotto la lente d’ingrandimento del Centro Studi Cisl Vicenza, che ha analizzato la presenza nel territorio provinciale di quei settori che sono stati riconosciuti da Unioncamere come maggiormente esposti all’aumento dei costi dell’energia: produzione di alimenti, tessile, carta, metallurgia, prodotti in metallo, chimica, gomma e plastica, apparecchiature elettriche, costruzioni e lavorazione del carbone.

Complessivamente, le imprese vicentine a rischio sono 7.254, ovvero il 10,4% del totale. Tra loro, spiccano le 2.330 industrie attive nella trasformazione di prodotti in metallo, le 1.553 imprese del tessile e le 1.530 imprese di costruzioni.
Traducendo questi dati sul piano occupazionale, il quadro si fa ancora più drammatico, perché i posti di lavoro a rischio sono ben 96.343, ovvero il 30,1% del totale. Il settore della produzione di articoli in metallo, da solo, “vale” 26.442 posti di lavoro nel vicentino, mentre il tessile ne conta ancora oggi 24.305, e non si può non sottolineare anche il peso importante delle industrie alimentari, con 6.628 addetti.

«Come sempre abbiamo voluto partire dai numeri – sottolinea Raffaele Consiglioper provare a quantificare quello che potrebbe essere l’impatto dell’impennata delle bollette sull’occupazione nel nostro territorio, nel caso in cui venga meno la continuità di attività nel settore manifatturiero. Il risultato è drammatico, perché quasi 1 lavoratore vicentino su 3 affronterà l’autunno con forti preoccupazioni non solo per l’aggravio di spese che dovrà sostenere a livello familiare, ma anche con il timore di ritrovarsi tra qualche mese o settimana in cassa integrazione, per non parlare di scenari ancora più drammatici come
una chiusura permanente».

Il pericolo è duplice, sottolinea ancora Raffaele Consiglio: «C’è un primo tema più immediato, ovvero che non è pensabile che i lavoratori possano trovarsi con lo stipendio decurtato per la cassa integrazione proprio quando il costo della vista ha visto un’impennata senza precedenti: per le bollette di casa, ma anche per fare la spesa, così come per tante altri acquisti quotidiani. C’è quindi una grave questione di tenuta sociale, perché in caso di ricorso diffuso alla cassa integrazione migliaia di famiglie vicentine
rischiano di non arrivare a fine mese. Ma c’è anche un’altra questione, più strutturale: le aziende subfornitrici sono la forza trainante del nostro tessuto produttivo, ma se si fermano non è detto che possano poi ripartire, perché i loro clienti nel frattempo avranno trovato altri canali di approvvigionamento. Ecco allora che uno stop temporaneo per molte aziende potrebbe diventare permanente, con la perdita di migliaia di posti di lavoro».

Questo l’appello di Cisl Vicenza:: «Il tema è nazionale – sottolinea Raffaele Consiglio – e a questo livello come Cisl abbiamo già chiesto un’azione decisa a tutela innanzitutto delle famiglie, ma anche delle imprese. Tanto più che le risorse finanziarie si potrebbero trovare, grazie al “tesoretto” di 10 miliardi di euro registrato nel 2021 rispetto al bilancio preventivo che era stato approvato, senza dimenticare i maggiori introiti dell’IVA per effetto dell’inflazione. Anche a livello locale però si può fare molto: come Cisl Vicenza chiediamo, anzi pretendiamo che le società locali multiutility dell’energia, che stanno generando profitti, utilizzino gli utili per sostenere la tenuta sociale ed economica del territorio, invece di distribuirli agli Enti locali che finirebbero per utilizzarli per altri scopi».