Morire di freddo e noncuranza: addio a Massimo, l’iraniano che riparava tappeti

Massimo Aliakbar Ghannad

“Mi chiamo Aliakbar Ghannad, ma per molti a Vicenza sono Massimo dall’Iran, perché da lì vengo, dalla dorata terra di Esfahan, culla della civiltà, ricca di patrimonio culturale e di risorse tanto, che viene chiamata “Esfahan a metà del mondo”. Anch’io mi sento così, un patrimonio metà persiano e metà italiano, poiché vivo qui da vent’anni. Qualcuno di voi si ricorderà di me: sono l’uomo alto, coi capelli bianchi e le mani grandi che aggiustava i vostri tappeti quando li portavate, ad esempio, nella libreria antiquaria di corso Fogazzaro. Amavo anche cucinare per gli amici i piatti della mia terra, tanto tempo fa.

Quando poi la vita è diventata più difficile, zero lavoro e zero soldi, ho continuato a sorridere, perché ancora potevo contare su buoni amici che mi davano un alloggio. Poi quando i miei contatti più stretti sono venuti a mancare, ho cominciato ad avvertire quel freddo dentro. Avrei voluto dirvi che mi sentivo solo, che l’età avanzava e avevo bisogno di aiuto, ma ho sempre cercato di cavarmela senza disturbare nessuno. E poi non sono mai stato abituato a parlare di me. Sono stato accolto da un buon lupo di mare, qui a Vicenza ne esistono tanti; li chiamo così perché sono rudi, solitari ma buoni, vivono con poco ma sognano ancora. Ho abitato da lui per qualche anno, sì qualche anno, non un mese…

In questa casa ora senza luce, senza riscaldamento, senza boiler per l’acqua calda, senza persone che entrino ed escano se non per portarci una volta al mese un pacco di cibo, ma solo per lui. Beh è giusto, lui ha la residenza quindi il comune gli riconosce un pacco di viveri mensile che basta per una sola persona. Quel che è giusto è giusto, no? Niente documenti, niente diritti. Io non figuro come abitante, come avente diritto, come Persona avente Diritto, sì qualcuno dice che mi vede spesso in questa casa, che quando suonano per il pacco a volte apro io ma… perché farsi troppe domande. Poi un’amica, Elisabetta, mi porta un panettone a Natale e VEDE. Vedendo i vetri appannati da dentro, i miei vestiti sporchi ed io dentro a questi molto dimagrito, deduce che si devono fare azioni, tante e piccole costanti azioni: mi arrivano coperte e cibo da altri amici che lei ha allertato.

Mi propongono anche di portarmi alla Caritas, ma cortesemente rifiuto. Perché? Direte voi… perché rinunciare a pasti caldi, alla doccia, al servizio lavatrice? Se vi dicessi che ero senza documenti scatenerei una discussione politica, troppo scontato no? Perché non mi guardate?? Mangio un giorno sì e uno no ma vivo nei vostri quartieri, non ho più un organo che funziona (l’ha detto la dottoressa dell’ospedale quando mi hanno ricoverato, in questi ultimi giorni) ma vi sorrido. Quando si vive in una dimensione diversa dalla società si diventa Invisibile agli altri… Ora non posso più contare sulle mie forze: ecco, la stanchezza e il gelo mi avvolgono, chiudo gli occhi, muoio di infarto e di ipotermia, Ho sentito che sono il quinto a Vicenza quest’inverno, poveri Altri Me! Io almeno ero sotto un tetto, loro sono sulle strade all’aperto. Inschiallah…”.

Ho ritrovato Massimo dopo anni, in stato di indigenza. Si è lasciato morire. Aveva nobiltà d’animo: quando gli portai in dicembre un piumone e della verdura cotta mi rispose: “Grazie, coperta ha dentro tuo cuore e melanzane hanno sali minerali, fanno bene alla salute”. Trovava un’immagine per tutto, ma chi ha provato a crearsi un’immagine di lui? A vederlo al di là del barbone, dello straniero, del disadattato? Come può un uomo di 77 anni morire per congelamento nella civile città di Vicenza? Il freddo come estrema “mazzata”, insieme a patologie cronicizzate che richiedevano cure che non si poteva permettere.

Come possiamo andare avanti senza farci questa domanda? Per una persona arrivata a quell’età senza cibo né acqua calda né riscaldamento (in pieno inverno) è difficile prendere una bicicletta per spostarsi da una mensa all’altra per chilometri, né si riesce a prendere un autobus dove essere guardato e giudicato, perfino temuto. Si perde lucidità e speranza. E se sorridesse all’interno di un autobus, perché l’educazione sì era il suo tratto più evidente, verrebbe percepito in cattiva fede. Massimo ora è in attesa di una tumulazione molto semplice, senza veglia né messa, poiché i “senza dimora” non possono pesare troppo economicamente. Fino alla fine. Lui comunque non aveva bisogno dei nostri soldi ma della nostra attenzione, di quel po’ di fiducia e ascolto che forse, col tempo gli avrebbe permesso di farsi aiutare.

Daniela Sartori

Vicenza, 3 marzo 2021