Il boss mafioso Brusca, pentito, torna in libertà. Azionò il telecomando di Capaci


Il boss Giovanni Brusca è libero. A fine maggio sono infatti trascorsi i 4 anni di libertà vigilata impostigli dalla magistratura di sorveglianza. Fu lui, il 23 maggio 1992, ad azionare il telecomando che innescò l’esplosivo della strage di Capaci. Macchiatosi di decine di omicidi, dopo l’arresto e un primo falso pentimento Brusca decise di collaborare con la giustizia. Maria Falcone, sorella del magistrato, commenta: “Dolore e amarezza, ma è una legge, quella sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni e ritenuta indispensabile per scardinare le organizzazioni mafiose dall’interno”.
Giovanni Brusca, figlio del boss Bernardo Brusca, è stato uno dei membri di spicco di Cosa Nostra, capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente del clan dei Corleonesi. Lo chiamavano “u verru” (il porco) oppure lo “scannacristiani”. Venne arrestato nel 1996, ammise la sua responsabilità in più di 100 omicidi, fra cui la strage di Capaci e l’omicidio del 12enne Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo. Per indurre il padre a ritrattare, il ragazzo viene portato via, il 23 novembre, da uomini travestiti da agenti della Dia. Viene tenuto in ostaggio, tra vari covi, fino all’11 gennaio 1996 quando viene strangolato e sciolto nell’acido.
Nel 1983 con Madonia preparò l’autobomba, imbottita con 75 chili di esplosivo, usata il 19 luglio di quell’anno a Palermo per uccidere il giudice Rocco Chinnici, ideatore di quello che sarà poi conosciuto come il pool antimafia, e gli agenti di scorta. L’anno successivo scatta per Brusca un mandato di cattura per associazione mafiosa, scaturito dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Dal 1991 diventa latitante, ma continua a guidare la Famiglia di San Giuseppe Jato dopo l’arresto del padre.
Nel 1992 inizia la guerra allo Stato, e Brusca diventa uno dei killer più spietati della mafia. Uccide il capo della Famiglia di Alcamo, Vincenzo Milazzo, che si oppone a Riina, e pochi giorni dopo fa strangolare la sua compagna incinta di tre mesi. Nello stesso anno coordina i preparativi della strage di Capaci in cui muoiono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. È Brusca che materialmente spinge il tasto del radiocomando a distanza che fa esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada.
Il 15 gennaio 1993 Totò Riina viene arrestato e Brusca continua la strategia degli attentati insieme ai boss Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Le esplosioni a Firenze, Milano e Roma nell’estate 1993 provocano in tutto dieci morti e 106 feriti.
Nel 1996 viene arrestato in una frazione di Agrigento: all’operazione partecipano più di 400 uomini e 40 mezzi speciali della polizia. Tre giorni dopo, nel quarto anniversario della strage di Capaci, secondo il suo racconto, inizia a collaborare con gli investigatori: le sue informazioni portano a decine di condanne nei confronti di mafiosi, anche in procedimenti penali in cui è imputato lui stesso, e gli fanno ottenere sconti di pena: nel 1997 evita l’ergastolo per la strage di Capaci, nel 1999 per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo. Nel 2000 Brusca ottiene lo status di collaboratore di giustizia, che gli consente di lasciare il regime del 41-bis. Nel 2004 il Tribunale di sorveglianza di Roma gli concede periodicamente dei permessi premio per buona condotta, consentendogli di poter uscire dal carcere ogni 45 giorni e far visita alla famiglia in una località protetta.