La pizza, cibo di strada del Settecento: le origini di una tradizione tutta italiana

Quali sono le origini della pizza? Per scoprirlo, val la pena di iniziare ricordando che essa  può essere considerata l’antenato degli street food moderni: per oltre un secolo, infatti, non ha avuto casa. Nata a inizio Settecento, fino ai primi dell’Ottocento è stata ospite della strada, dei vicoli, degli spiazzi, dei mercati, delle banchine del porto di Napoli. Si poteva comprare da un venditore che, attrezzato con una tipica stufa di rame sul capo, girava dall’alba a notte inoltrata gridando “’E ttengo caure, caure ‘e ppizze”. Non era però chi le vendeva a prepararle: arrivavano da un piccolo locale dove il venditore andava a rifornirsi mano a mano che finiva le scorte che aveva con sé.

Per fare il pizzaiolo servivano buone braccia, molto mestiere e la forza di stare in piedi tante ore al giorno (la preparazione della pasta era lunga e si faceva di notte), mentre per il venditore erano fondamentali gambe per camminare e fiato. Il consumo della pizza, poi, trattandosi di un cibo di strada, avveniva in piedi e il venditore cercava di trattenere in chiacchiere il cliente perché la scena richiamasse, insieme al profumo di olio e basilico, altri avventori.

Se queste son le origini della pizza, i suoi progenitori erano la schiacciata e la focaccia. Ma partiamo da principio: all’inizio ci fu la stiacciata, un impasto di acqua e farina di miglio o orzo, non lievitato, cotto tra due pietre roventi. Furono gli Egizi a scoprire il processo di lievitazione naturale e con esso la possibilità di cuocere l’impasto al forno. Inizia così la storia della schiacciata, lievitata, ben cotta, più leggera e digeribile. Al miglio e all’orzo, nel frattempo, subentrano l’avena e il farro: un cambiamento epocale nella storia dell’alimentazione, perché da esso discende l’uso del frumento (grano), destinato a soppiantare tutti gli altri cereali. Il nome “farina”, infatti, deriva proprio dalla parola farro. Nasce in quest’epoca la focaccia, che ha le stesse caratteristiche della schiacciata, ma è a base di frumento. Cibo greco e romano per eccellenza, la schiacciata prima e la focaccia poi trovano riscontri anche nei resti di Pompei.

Per parlare di pizza, manca però l’abbinamento col pomodoro: una data certa non c’è, ma di sicuro bisogna arrivare al Settecento, molto dopo l’arrivo di questo vegetale dalle Americhe: inizialmente coltivato a scopo ornamentale perché considerato tossico, ebbe il suo successo quando si diffuse la credenza che avesse virtù afrodisiache, tanto che i Francesi li chiamavano pommes d’amour. Arriviamo così ai primi decenni del Settecento, quando  nasce la pizza come noi conosciamo: con olio, origano e pomodoro, che va comunemente sotto il nome di “marinara”. L’arrivo della prima pizzeria avvenne un secolo dopo, quando a fianco dell’angusto locale, dove le pizze venivano lavorate e infornate per essere poi vendute (come detto) in strada, iniziò ad organizzarsi alla meglio uno spazio con tavoli e panche.

Come si fa la pizza
Partiamo dall’impasto, o meglio dal rapporto fra le sue quattro componenti: farina, acqua, lievito e sale. Per prepararlo bene, ogni pizzaiolo mette insieme in varia misura diversi tipi di farina. E questo è un segreto. Le altre due componenti sono l’acqua e il sale. La prima, a una temperatura 20-25 gradi, deve tener conto del tasso di umidità. Un elemento che rientra in quelle doti che fanno un buon pizzaiolo. Quanto al lievito, si ottiene da una piccola quantità di pasta lasciata a fermentare il giorno precedente (‘o criscito). Quindi si passa alla lavorazione dell’impasto, perché assorba il 50-60% di acqua e risulti piuttosto elastico. Si dà poi forma a una serie di panelli di circa dodici centimetri, da sistemare in apposite cassette di legno.

Da questo momento in poi si opera dinanzi al pubblico: il panello passa sul marmo del banco, cosparso di farina. Pochi sapienti colpi e l’originaria forma si trasforma in un disco da allargare progressivamente a poco più di venti centimetri. In questa fase, la parte centrale deve restare più sottile rispetto alla circonferenza, la quale – proprio perché di maggiore spessore – funge da cornice (e detta appunto cornicione), per fare in modo che i vari ingredienti non fuoriescano. “L’operazione di dare al panello questa forma – spiega Giuseppe Giordano, con una cinquantennale esperienza in quanto fondatore della rete di pizzerie Da Pino e del marchio di franchising Pizzalonga Away – è il banco di prova di ogni pizzaiolo. La mano sinistra trattiene l’impasto, la destra lo tende ed entrambe si muovono con movimenti sincronici. Poi, la mano esperta affonda nei pomodori rossi, che vengono distribuiti a tutto campo. Successivamente è la volta degli altri ingredienti, e infine della grande oliera di rame, che serve a disegnare un cerchio d’olio con un punto al centro”.

La pala di legno introduce quindi la pizza nel forno, “che deve essere a cupola, anzitutto, e ovviamente a legna, con il fondo in refrattario (meglio se lavorato a mano) e “bocca” in rapporto all’altezza e alla profondità. Una volta introdotta la pizza, l’ondata di calore investe il disco di pasta molle e gli dà nel giro di qualche secondo quel minimo di rigidità. Una leggera inclinazione della pala e la pizza scivola sul fondo arroventato. Ora è il contatto diretto con il forno a cuocerla, mentre il cornicione si gonfia per lievitazione. La fiamma è vivacissima e breve, ma basta ad aumentare quel riverbero di calore che completa la cottura.

Dal 1972 Pino Giordano preserva questa tradizione, proponendo anche nel vicentino (a Thiene, Bassano, Vicenza, Valdagno, Arzignano) con Pizzalonga Away pizze di qualità, dai sapori autentici: la rete di pizzerie aumenta, ma la produzione artigianale e centralizzata consente di rifornire quotidianamente tutti i locali, preservare la qualità e la freschezza sia dell’impasto che degli ingredienti. Freschezza e stagionalità sono le nostre linee guida da sempre Da Pino e Pizzalonga Away offrono, per vivere ad ogni morso un’esperienza indimenticabile.